di ROBERTO SPAZZALI
A chi spetterà Trieste? Questo era il dilemma che ha accompagnato i triestini nell'immediato dopoguerra e con loro gli istriani, i goriziani che dalle sorti di Trieste dipendevano anche le proprie. Ma era l'interrogativo che consumava i partiti politici italiani oltre che i governi di Roma e Belgrado. Una partita difficilissima in cui anglo-americani e sovietici giocarono un ruolo non secondario. Questa domanda è pure il titolo del libro di Nevenka Troha, conosciuta ed apprezzata storica lubianese, ora pubblicato per conto dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia (”Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due Stati”, pagg. 357, euro 20) che sarà presentato oggi alle 17 alla Libreria Minerva, in via San Nicolò 20 a Trieste, e dibattuto, tra gli altri, da Gian Carlo Bertuzzi, Raoul Pupo e dall'autrice.
Va subito detto che questo libro è la traduzione, nonché riduzione per il pubblico italiano, di "Komu Trst" uscito nel 1999, ma che a distanza di un decennio mantiene una certa freschezza per l'ampio e copioso riferimento a importanti fonti slovene ed altrettanto significative italiane; magari sul piano della valutazione risente di una minore attenzione per i contributi storiografici più recenti e di quanto è stato nel frattempo pubblicato. Un'altra avvertenza ai lettori italiani si rende necessaria, soprattutto quando non si troveranno a condividere certe osservazioni – come ha rilevato Gian Carlo Bertuzzi nella presentazione – in quanto la pubblicazione è interprete della storiografia slovena e, pertanto, risente di una impostazione che fa capo ad una precisa lettura della contemporaneità alla luce di alcuni motivi ricorrenti quali la slovenità e il concetto di territorio etnico. Ma è giusto il confronto per capire scarti, distanze, punti comuni e differenze. Senza pregiudizio.
È noto come si concluse la corsa per Trieste tra anglo-americani e jugoslavi, con in mezzo la coraggiosa decisione del Cln di insorgere contro il presidio tedesco per dimostrare nei fatti che la città non aveva atteso una liberazione straniera, dopo avere respinto le profferte di collaborazione formulate dal prefetto Bruno Coceani che avrebbero compromesso intenzioni e spirito della resistenza democratica triestina.
Il libro della Troha, invece, si addentra prima nella fase cruciale dei quaranta giorni di occupazione jugoslava con la costituzione di un vero e proprio apparato politico e amministrativo orientato a formalizzare e consolidare l'annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, culminato, però, con una fase repressiva (arresti, deportazioni, liquidazioni), e poi in quel lungo periodo (dal giugno 1945 al febbraio 1947) in cui Trieste, come Gorizia, è oggetto di una durissima contesa politica dai risvolti locali ed internazionale. Per cui non è sbagliato ritenere che la guerra nella Venezia Giulia si è conclusa solo il 10 febbraio 1947 con la firma del trattato di pace e da quel momento è subentrato un altrettanto complesso dopoguerra da cui la città è uscita solo nel 1954: dalla guerra guerreggiata ad uno scontro politico che può essere considerato una sorta di guerra civile dalle molteplici valenze di cui si è sentita a lungo la sua eco, in cui gli Stati con i suoi apparati si sono contesi il controllo del territorio: quello jugoslavo espresso principalmente dall’apparato del Partito Comunista Sloveno, quello italiano che in forma residua lascia nella zona propri gangli con compiti informativi, ed infine gli anglo-americani risoluti ad imporre il governo militare alleato, come poi avverrà nell'assegnata zona ad occidente della linea Morgan. Ci sono pure i partiti politici, da una parte quello locale comunista votato alla causa jugoslava e dall'altra quelli per la causa italiana ai quali si aggiungeranno più tardi la componente indipendentista.
Una ricostruzione storica fondata principalmente su documenti può sicuramente riservare delle sorprese ma non è la sola che possa legittimarla. Quali allora le novità emergenti dai documenti?
Innanzitutto la convinzione da parte dei comunisti sloveni di avere in perfetto controllo della situazione, anche dopo il ritiro delle truppe jugoslave da Trieste e Gorizia; controllo garantito da un apparato politico, uno informativo estremamente capillare, dal un clero orientato nazionalmente e da una classe operaia altrettanto disposta all'opzione comunista. Per esempio gli informatori filojugoslavi davano grande enfasi ai primi approcci tra alcuni esponenti del Cnl giuliano, che però continuava ad essere tacciato di fascismo mascherato, e l'Uais la maggiore organizzazione di massa filojugoslava; approcci dettati non tanto dall'acquiescenza dei primi alla seconda ma dal tentativo di trovare una soluzione alla primaria necessità di far ripartire la società. Cosa assai complessa dal momento che gli arresti e le deportazioni e poi l'epurazione avevano scavato negli italiani un solco di grande diffidenza verso gli jugoslavi, accentuato poi dalle voci provenienti dai campi di concentramento o dall'assenza totale di notizie dei deportati. La questione è stata già affrontata anche in altri studi, ma qui si conferma come nemmeno i maggiori esponenti politici sloveni riuscirono porre freno all'abuso di potere dell'OZNA i cui metodi risultarono poi determinanti nel danneggiare irreparabilmente la stessa loro causa politica e nazionale.
Invece nella componente italiana, pur su una posizione largamente deficitaria e compromessa moralmente dalla sconfitta, risiedeva la speranza di poter rovesciare la situazione confidando sull'appoggio del governo italiano e sulla crescente simpatia tra gli anglo-americani. Da una parte si sovrastimava il consenso rivoluzionario, dall’altra si sottostimava il sentimento di rifiuto per un’Italia che faceva fatica a scrollarsi da dosso il retaggio del fascismo.
Però sono fonti di carattere emotivo e confidenziale non sempre riscontrabili completamente nello stato delle cose e soprattutto tendono, per inclinazione naturale, a dare una versione che risulta di parte. Versioni però spesso accreditate tanto da Boris Kraigher e Edvard Kardelj che da Alcide De Gasperi. In verità il governo di Belgrado né quello di Roma erano sul luogo e quindi dovevano affidarsi a notizie spesso riportate oppure a vere e proprie mistificazioni frutto dell'acceso clima politico a Trieste, fatto a colpi di petizioni, raccolte di firme, ma anche di scontro fisico soprattutto nel corso del 1946. L'azione politica locale doveva fare i conti con gli esiti della conferenza di pace e la divisione della Venezia Giulia, soluzione per far decantare le tensioni e procrastinare decisioni definitive.
C'è un interessante capitolo dedicato alle condizioni degli sloveni nella Zona A (peccato, invece, che manchi uno corrispondente per gli italiani della Zona B, almeno sul circondario di Capodistria, Isola e Pirano, i cui problemi sono però trattati dall'autrice con sommario schema interpretativo) in cui si coglie molto bene l'articolazione di posizioni politiche ed emotive: se l’unificazione nazionale era elemento preponderante, l'opzione jugoslava e ancor di più quella dello Stato socialista non trovava altrettanto compatto seguito tra gli sloveni. In questo ventaglio di idee si collocava pure il clero sloveno che aveva già assunto la difesa della slovenità ma che non risultava del tutto convinto di passare sotto un regime comunista, salvo alcune eccezioni per le quali il nazionalismo a qualsiasi prezzo sovrastava ogni altra fede. Non mancano, infine, molti riferimenti alla presenza di fuoriusciti sloveni o più genericamente slavi nella Zona A e nella penisola italiana (circa 14 mila), guardati con sospetto ed oggetto di stretta osservazione da parte dello spionaggio jugoslavo che ne temeva uso per rovesciare il potere di Tito.
Da quei documenti riaffiora il clima di una guerra civile, senza esclusione di colpi che però coinvolgeva la popolazione solo in occasione delle grandi manifestazioni pubbliche. Certo il mondo allora era diviso e anche Trieste lo era altrettanto ma, al di là dei più fermi propositi dei singoli agitatori politici, la città era forse meno contrapposta di quanto si volesse far credere. Ecco appunto: Trieste divisa non contrapposta. E quella divisione è andata avanti per un bel po'.
Eppure la gente comune, non il militante politico che restava comunque espressione minoritaria, aveva un solo desiderio: recuperare alla vita tutti gli anni rubati dalla guerra, riprendere il lavoro, tornare alla pace. Però tutto questo nelle informative non compariva mai.