È la mattina del 26 ottobre 1954.
Tanti, tantissimi si sono alzati all’alba; molti non sono riusciti a dormire.
Sono arrivati con i treni della notte da Roma Milano Torino Fertilia, da ogni angolo d’Italia in cui oramai vivono.
E non sono solo adulti, vi sono tanti giovani ragazzi e ragazzini, devono esserci anche i “pici”, tanti, anch’essi devono vivere questa giornata.
La pioggia viene giù abbondante, gli ombrelli sono chiusi dalla Bora… ma non importa! In quella calca non potrebbero rimanere aperti.
Ci dobbiamo essere, vogliamo esserci ad ogni costo.
Anche spendendo quelle poche lire messe da parte a fatica, magari non comprando qualche “alfa”, risparmiando su ogni cosa per pagarci quel viaggio.
Non importava se quei pochi soldi sarebbero bastati solo per il treno.
Sapevamo, sapevano che in mezzo a quelle decine di migliaia di persone avrebbero trovato i loro fratelli di sventura, quelli che ANCORA il 26 ottobre 1954 vivevano ANCORA nei Campi Profughi di Padriciano, alla Risiera di San Sabba, alle Noghere…
Sapevamo, sapevano che li avremmo incontrati e che “un tochetin de pan e formaio e un sluk de vin o de bevanda” li avrebbero condivisi.
E se no, che importava?
Importante era esserci, urlare di gioia, abbracciarsi.
Abbracciare, ma solo con il pensiero, “gli altri”.
Quelli che avevamo sempre nel cuore e nella mente, quelli che vicino al Molo Audace, in Piazza Unità non potevano esserci, neppure a Barcola incontro ai bersaglieri.
Non potevano esserci, non erano potuti venire.
Erano “a casa”.
Erano nei loro paesi paesini cittadine città.
Erano i nostri connazionali rimasti là.
Perché non era stato loro permesso il lusso di diventare esuli, anch’essi stranieri nei luoghi dov’erano nati, malvisti, spesso odiati, perseguitati, ancora nel 1954 mal sopportati.
Con una difficilissima dura complicata vita da vivere dov’erano nati.
A Trieste, in tutta l’Italia gli esuli piangevano, di gioia e di disperazione.
Di gioia per Trieste salva, italiana.
Di disperazione perché avevano capito che, da quel giorno, le loro speranze di ritorno a casa non si sarebbero mai più avverate.
Anche i rimasti piangevano, anche se erano nei loro paesi e nelle loro case.
Anche per loro, da quel giorno, non c’era più la speranza.
Non sarebbero stati mai più italiani, di nuovo italiani.
C’era un pesante sentimento comune sul cuore di quelli che erano a Trieste e di chi era là, a casa sua: era dolore, tanto dolore.
C’era la consapevolezza che i giochi erano stati fatti, che tutto era stato deciso, anche se ancora, ufficialmente, non tutto era stato definito.
Era ancora in sospeso il destino della Zona B.
Flebile inutile speranza spezzata nell’amaro risveglio del 10 novembre 1975.
Tutti gli esuli, tutti i piranesi e i capodistriani, tutti gli italiani che vivevano nella Zona B hanno imparato il nome di una piccola città, sconosciuto: Osimo.
Con Osimo tutto è finito, proprio tutto.
Ma in quella mattina fredda e ventosa del 26 ottobre ancora non lo sapevamo.
Anna Maria Crasti
Consigliere nazionale Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia
In seguito al Memorandum di Londra, alcune frazioni del Comune di Muggia passarono
dalla Zona A (amministrazione italiana) alla Zona B (amministrazione jugoslava)
del mai costituito Territorio Libero di Trieste: ne conseguì una nuova ondata di esuli