A Goli Otok sorgeva uno dei gulag in cui venivano rinchiusi i dissidenti tra i quali 300 italiani. Solo qualche targa ricorda la crudeltà del dittatore
Sono tanti i nomi di Goli Otok: c’è chi la chiama isola segreta e chi, invece, isola calva. Per qualcun altro è l’isola nuda. Per tutti, invece, è l’isola degli orrori. Dal 1949 al 1956, infatti, Josip Broz Tito, Maresciallo di Jugoslavia, vi spedì oltre 30mila dissidenti (tra loro anche trecento italiani attratti dalle sirene del socialismo), 4mila dei quali morirono dopo atroci sofferenze. La loro colpa? Esser rimasti fedeli all’Unione sovietica dopo lo strappo tra Belgrado e Mosca. Come scrive Orietta Moscarda Oblak in La memoria di Goli Otok – L’isola calva: «Nei confronti dei cominformisti’ le autorità jugoslave avviarono una violenta epurazione, che lasciò ai comunisti italiani, schieratisi quasi compattamente con Stalin, la sola via dell’emigrazione, attraverso la richiesta d’opzione a favore della cittadinanza italiana prevista dalle clausole del Trattato di pace, quale possibilità di scampare ai processi, alle condanne, al lavoro socialmente utile’ e alla deportazione nel campo di prigionia dell’Isola Calva (Goli Otok)». I sette anni di terrore furono tutti in autogestione, come ricorda il sopravvissuto Eligio Zanini: «Si venne a sapere in seguito che tra i campi organizzati dai vari regimi totalitari i nostri erano di gran lunga i più efficienti, in quanto erano gli stessi detenuti a controllarsi, bastonarsi, denunciarsi e autoamministrarsi, facendosi del male tra di loro».
I racconti dei sopravvissuti si sovrappongono drammaticamente. Chiunque osasse esprimere anche un minimo di autonomia rispetto al comunismo jugoslavo veniva prelevato e, dopo esser stato caricato sul Punat, la motobarca che aveva il compito di trasportare i dissidenti sull’isola degli orrori, veniva pestato, come racconta Sergio Borme, un sopravvissuto: «Quando arrivammo a Goli non ci riconoscevamo più, tanto i volti e le membra erano tumefatti dalle bastonate». Ma quello era solo l’inizio dell’incubo: non appena si sbarcava si finiva in un tunnel fatto di botte continue chiamato kroz stroj e si veniva finiti con lavori estenuanti e punizioni tremende. Racconta un altro superstite, Silverio Cossetto: «Appena arrivato, seppur febbricitante e pesto, venni impiegato subito al trasporto di pietre con le ziviere’. Tutto il lavoro doveva essere fatto sempre di corsa. Chi, come me, non era abituato ai lavori pesanti, se la passava veramente male. Per ogni minima infrazione erano pronte le più severe punizioni. Tutto era predisposto al fine di demolire, non solo fisicamente ma soprattutto moralmente anche la più forte personalità. A questo scopo erano stati studiati ogni sorta di espedienti, tra i quali figurava pure la sete».
L’obiettivo di questo campo di rieducazione era quello di portare i dissidenti sulla retta via, per questo veniva fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, fino a spingere gli internati a confessare colpe che non avevano. Anzi, spesso i detenuti spingevano la propria fantasia oltre ogni limite per essere il più possibile credibili. Il rischio, altrimenti, era quello di prendere nuove e più forti legnate.
A Goli Otok non ci si poteva fidare di nessuno. Ed era questo il punto di forza del campo: le persone che si trovavano sull’isola erano allo stesso tempo vittime e carnefici. Racconta il già citato Borme: «Tutto era diretto dai fiduciari dell’Udb-a. Il capobaracca, infatti, andava quotidianamente a rapporto dall’isljednik’ e da lui riceveva l’ordine su ciò che doveva fare e chi doveva essere boicottato. A turno poi tutti dovevano andare da questo fiduciario a confessarsi e a denunciare qualcuno, altrimenti, prima o dopo, venivano boicottati loro stessi e considerati banda’. A un certo momento non ti fidavi più di nessuno. Se qualcuno ti diceva, o raccontava qualcosa, dovevi riferire subito, altrimenti andavano loro a riportare la faccenda operando spesso da agenti provocatori. Un sistema allucinante che purtroppo veniva attuato quasi da tutti».
A Goli Otok era difficile perfino suicidarsi. Un giorno, un detenuto disperato provò a lanciarsi dal tetto di una baracca, sperando di farla finita, ma non morì. Fu la sua fine: venne infatti messo a riposo e, una volta che fu finalmente guarito, venne pestato a sangue. Doveva comprendere di aver fatto un errore. Doveva pagare. «Furono in molti a tentare il suicidio, ma la sorveglianza era così severa che anche se lo volevi, non riuscivi nell’intento».
Ma non c’era solamente Goli Otok. A San Gregorio, per esempio, alcuni testimoni raccontano che sarebbe stato presente anche un forno crematorio: «La gente infatti diceva, che secondo come tirava il vento, si sentiva l’odore di carne umana. Questo forno era munito di due capaci camini», ha detto Silvano Curto.
Oggi, di Goli Otok è rimasto poco o nulla. Coloro che erano sopravvissuti agli orrori di Tito sono ormai scomparsi e la memoria rischia di andare perduta. Di quel campo degli orrori rimane solamente qualche baracca abbandonata e un mucchio di sassi cotti dal sole e sferzati dalla bora. Eppure tutto questo non si può dimenticare.
di Matteo Carnieletto – 20/06/2021
Fonte: ilGiornale.it
Vogliamo raccontare gli orrori di Tito a Goli Otok, l’isola a due passi dall’Italia dove il maresciallo Tito imprigionò 30mila oppositori, tra cui centinaia di italiani. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo del fotografo tre volte vincitore del World Press Photo, Ivo Saglietti, e le parole di Matteo Carnieletto, responsabile di InsideOver.
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CAUSALE: Reportage Goli Otok
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