La ventiquattresima edizione del Trieste Film Festival ha preso commiato e gli organizzatori sono già alla ricerca di nuove proposte e di progetti da poter inserire nel cartellone della prossima edizione, che sancirà un quarto di secolo di vita di questo principale appuntamento italiano con il cinema dell’Europa centro-orientale. Per i vincitori dell’edizione 2013 arriva ora il momento di pensare a come fare arrivare al grande pubblico il proprio lavoro. Sappiamo, purtroppo, che molti film non troveranno un produttore e sopratutto un distributore, indispensabili perché la propria opera approdi nelle sale o perlomeno in forma digitale sugli schermi televisivi.
Nella sezione Zone di Cinema, come già citato, il premio è stato assegnato alla regista rovignese Sabrina Benussi, con il documentario “Vedo rosso, Anni ’70, tra storia e memoria degli italiani d’Istria” (Italia 2012). La regista italiana si era già distinta, qualche anno fa, con il documentario-inchiesta “Rapotez. Un caso italiano”. Nel secondo dopoguerra, a Trieste, Luciano Rapotez venne arrestato, torturato e sottoposto per due anni e mezzo a carcerazione preventiva prima di essere assolto dall’accusa di aver commesso un triplice omicidio. Infine, si vide costretto a emigrare per rifarsi una vita, lontano dagli affetti ormai perduti. Era d’obbligo porre alla regista rovignese alcune domande sul suo nuovo film.
Il suo film è un viaggio nella memoria, una memoria che si ferma ad un decennio (1970-1980) e che investe un vissuto che le appartiene, come appartiene ad una generazione che ha vissuto il difficile transito dall’era cosiddetta comunista a quella successiva. Perché ha scelto una narrazione emotiva e non una prevalentemente storica?
“Volevo raccontare la storia di ‘quelli che la storia non la fanno’, fornire uno spaccato di vita di noi italiani che abbiamo vissuto in Istria la nostra infanzia e adolescenza negli anni Settanta. Raccogliere le testimonianze delle persone che sono cresciute in quel periodo è stato ciò che mi interessava, perché la memoria individuale è anch’essa materiale utile per gli storici. La mia intenzione non era di fare un documentario di storia, ma di dare spazio e voce a quei ricordi”.
La guerra nei Balcani ha cancellato un progetto di geografia politica nato dopo la Seconda guerra mondiale, una realtà che ha profondamente e tragicamente marcato un confine. Lo stesso, cosiddetto mobile, contrassegnato da memorie conflittuali legate ad un passato che non riesce ancora ad essere condiviso. Non ha temuto che il suo film potesse rinforzare o fare dell’apologia del regime passato?
“Sono sempre stata consapevole della complessità dell’argomento che stavo affrontando. Mi sono confrontata e consultata con due storici, Orietta Moscarda (del CRS di Rovigno) e Alessandro Casellato (della Ca’ Foscari di Venezia). Tuttavia, visto il taglio che ho dato al documentario, non ho mai pensato che potesse risultare come un’apologia del regime passato. Volevo raccontare la mia storia e quella della mia generazione, le situazioni in cui ci siamo imbattuti, la nostra partecipazione a riti e miti di quei tempi, sui quali non avevamo molta scelta. Ho aperto una finestra chiusa da molti anni, magari sollevando un po’ di polvere, ma facendo anche entrare un po’ d’aria fresca, considerando la risposta del pubblico. Poi, credo che dal documentario emerga in modo chiaro questo fastidio che derivava dalla condizione di vivere in un regime, come il fastidio, per esempio, di dover seguire il funerale di Tito. La bambina del film si addormenta a scuola mentre in classe segue i funerali in diretta, una diretta durata ore e ore… Così come mi addormentai io all’epoca”.
Dalle interviste ai figli e ai nipoti dei cosiddetti “rimasti” riemerge un vissuto mediato dalle trasmissioni radio-televisive, che in qualche modo metteva in contatto le persone tra le due sponde dell’Adriatico. Il concetto del confine mobile è interiorizzato dai testimoni, tanto che nei loro racconti non c’è alcuna ombra di imbarazzo nel raccontare vicende che spesso creano polemiche soprattutto nella città di Trieste. Come lo interpreta e quale messaggio vuole rilasciare?
“Durante il periodo raccontato avevamo dai 7 ai 16 anni. La consapevolezza arrivava lentamente, crescendo e confrontandosi con i ‘grandi’. I nostri genitori, e spesso le nonne, ci seguivano e ci aiutavano a inquadrare i problemi, ad andare oltre la propaganda. Ovviamente, come ho evidenziato, la porosità delle onde tv ci ha consentito di confrontarci con un mondo diverso, che in fondo non sentivamo così lontano… Il detto polacco che faccio scorrere alla fine del film dice tutto: ‘Dalle nostre parti solo il futuro è certo, il passato cambia sempre’. Quando sono andata a intervistare i miei compagni di viaggio mi hanno detto ‘Ma davvero, Sabrina, questa è già storia?’ Sì, in un certo senso è già storia. Forse è stato per mettere insieme tutti i tasselli della nostra vita, fatta di tanti percorsi paralleli, che ho realizzato questo lavoro. L’ho fatto per noi, perché non siamo dei fantasmi, pur avendo vissuto in un Paese che non esiste più, la Jugoslavia. Nessun messaggio subliminale”.
Francesco Cenetiempo
“la Voce del Popolo” 30 gennaio 2013