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Ricordo difficile da ricordare (confronto.it 24 feb)

di Luigi Vatta   

È da poco trascorso un altro 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace del 1947. Da cinque anni a questa parte tale data significa anche “Giorno del Ricordo”, come sancito dalla Legge 92/2004. Mini-servizi nei TG, conferenze, incontri nelle scuole, inaugurazioni di targhe e monumenti, deposizioni di corone floreali a commemorare gli italiani di Istria, Fiume e Dalmazia trucidati dai partigiani di Tito durante e dopo la Seconda guerra mondiale e quelli costretti a lasciare la propria terra per sopravvivere e mantenere l’identità nazionale. Di certo non si è ancora ottenuto lo scopo principale della legge, ossia diffondere la conoscenza di una clamorosa atrocità rimasta per oltre sessant’anni nelle pieghe della storia, raccontata a mezza voce solo entro la ristretta cerchia dei diretti interessati: la maggioranza degli italiani, infatti, continua a ignorare le tragedie delle foibe e dell’esodo, e tra coloro che non ignorano pochi sanno che i loro connazionali non furono paracadutati a Pola e a Zara durante il Ventennio, bensì sono stati sempre presenti sulla sponda dell’Adriatico orientale, ininterrottamente fin dai tempi di Roma antica. Del resto, se si fatica a ritagliare nei libri di storia il giusto spazio per l’eccidio di 10 mila italiani, nonché per l’esodo quasi biblico di altri 350 mila, è difficile prevedere quando finalmente si potrà far studiare a scuola le vicende dell’imperatore spalatino Diocleziano, del triumviro della risorgimentale Repubblica di Venezia Niccolò Tommaseo (nato a Sebenico) o degli irredentisti Fabrizio Filzi e Nazario Sauro, istriani immolatisi sulle forche austriache durante la Prima guerra mondiale come Cesare Battisti, ma molto meno famosi di lui.

Non c’è più il vecchio PCI, collaborazionista dei compagni slavi, preoccupato di tener nascoste le nefandezze di una vera e propria pulizia etnica nei territori strappati all’Italia; e non c’è più nemmeno la vecchia DC, attenta a non contrariare il possibile alleato Tito, dopo la rottura con l’URSS del 1948: venute meno le ragioni della “congiura del silenzio” – secondo l’appropriata definizione utilizzata, in tempi recenti, anche dal Capo dello Stato Giorgio Napolitano – ora è solo questione di tempo, e anche gli ultimi muri dovranno cadere. Eppure, è significativo della strada ancora da compiere un episodio accaduto pochi giorni addietro a Torino, allorquando i rappresentanti degli esuli, chiamati a tenere una conferenza in una scuola, sono stati accolti da una grande aula vuota: preside e insegnanti non si erano premurati di condurre gli studenti all’incontro. Forse per un residuo di avversione ideologica, forse più semplicemente per ignoranza e incapacità di svolgere il ruolo di educatori, i responsabili dell’istituto hanno mancato l’appuntamento con la storia.

Ma state a sentire il finale. All’uscita di scuola i ragazzi, incuriositi da quei vecchietti che stavano riponendo le loro logore insegne nelle automobili, hanno formato un gran capannello attorno ai relatori mancati, subissandoli di domande. E così è sorta un’assemblea spontanea a cielo aperto, per discutere delle famigerate foibe, cavità carsiche in cui venivano gettati con disprezzo italiani colpevoli solo di essere italiani, in località che oggi appartengono alla Slovenia e alla Croazia. “Proprio dove sono andato coi miei in vacanza!”, ha esclamato uno studente del primo anno.

Sarebbe auspicabile che a quel ragazzo si possa un giorno spiegare – però in aula – perché la pietra bianca dei palazzi visitati durante la sua villeggiatura è la stessa con cui fu costruita Venezia.

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