riflessioni sul 65.esimo di vergarolla
Per la pace dei vivi
POLA – Un attentato è già di per sé un atto intimidatorio, orribile e odioso, che scuote profondamente, direttamente o indirettamente, l’intera comunità. Se poi le sue conseguenze arrivano al punto tale da scardinare la struttura stessa della comunità, allora l’effetto di tale offesa si fa ancor più esecrabile. È quanto accaduto sessantacinque anni fa, la domenica del 18 agosto 1946, a Pola, enclave della Zona “A” del Territorio Libero di Trieste sotto occupazione britannica.
Era la strage di Vergarolla. Provocò la morte di settanta persone e un centinaio di feriti, tutti civili. Colpì intere famiglie che si erano riversate sulla spiaggia quel giorno per assistere alla gara natatoria organizzata dalla “Pietas Julia” (si stava tenendo la Coppa Scarioni, e la società polese festeggiava il 60.esimo anniversario della sua costituzione, avvenuta il 14 agosto del 1886).
Causò l’esodo? Anche se è difficile affermare con certezza che fu proprio questa la sua causa scatenante, probabilmente fu una delle molle che lo fece scattare e che lo accelerò. Sta di fatto che di lì a poco avrebbe avuto inizio quella lunga e straziante ondata, che smembrerà la città dell’Arena e l’Istria tutta.
Per più di sessant’anni la verità sull’esplosione delle 28 mine (9 tonnellate di tritolo) accatastate sulla spiaggia, popolare ritrovo dei polesi, è rimasta sospesa. Qualche anno fa gli scrittori Fabio Amodeo e Mario J. Cereghino, spulciando tra le carte dei National Archives di Kew Gardens, hanno escluso uno dei “dubbi”: non fu un incidente, ma un attentato vero e proprio organizzato dall’Ozna, la polizia segreta di Tito. E hanno fatto il nome di uno dei sospetti esecutori materiali, tale Giuseppe Kovacich, fiumano, specialista in atti terroristici.
Continuano a esistere, comunque, diverse zone d’ombra. Anche perché per decenni non si è voluto o non si è avuto l’interesse di fare chiarezza su Vergarolla – furono aperte delle inchieste, che però non riuscirono a venir a capo dei motivi reali del fatto –, sulle responsabilità dell’evento. A più d’uno ha fatto anche comodo che calasse il silenzio, o che se ne parlasse come di una “sciagura”. Altri invece ci hanno ricamato su, strumentalmente. Un silenzio calcolato, che ha permesso l’affermazione di falsità, interpretazioni distorte, spacciate nelle sedi opportune per autentiche verità.
Oblii, omissioni, stravolgimenti, che hanno condannato i superstiti e i familiari delle vittime a confrontarsi con una condizione di insopportabile iniquità, hanno fomentato rancori, impedendo di guardare con “sereno” distacco alla propria storia. Perché, come disse Rudyard Kipling, “Nulla può dirsi concluso finché non è concluso con giustizia”.
E nessuno ha finora pagato per il turpe gesto e, beninteso, sarebbe per certi versi improponibile pretendere oggi che ciò sia fatto. Basterebbe indicare, in modo inequivocabile, (tutti, anche quelli che sapevano e hanno taciuto e continuano a tacere) i colpevoli. Ecco, finché ciò non sarà fatto, i “vivi” di Vergarolla non potranno commemorare in pace i loro morti. (ir)
(courtsey MLH)