La condivisione del passato e la volontà di proiettarlo nel futuro hanno fatto della serata di presentazione della raccolta di racconti di Roberto Stanich “L’imprinting dell’Istria” un autentico momento di rispetto del ricordo.
Autore, relatore (Fabrizio Radin) e pubblico, attivo, quest’ultimo, sin dalle prime battute, hanno ricreato atmosfere e personaggi senza cadere mai nella trappola del patetico, anzi, rifuggendola. Perchè l’imprinting de ‘”L’imprinting”, ci viene da dire, è l’autoironia di cui fa largo uso l’autore, anche per controllare la retorica e per non permettersi di giudicare mai nessuno. Così, a fine serata (e vale la pena di fare subito questo salto ed arrivare in fondo), a Roberto Stanich, classe 1941, partito da Pola con la famiglia nel 1956, l’incondizionato riconoscimento del pubblico è giunto non soltanto con gli applausi, ma con un’affermazione “collettiva”: all’esule Stanich (la cui famiglia, pur avendo optato nel 1948, dovette attendere il foglio d’uscita per lunghi anni) va anche il titolo di “rimasto”. Perchè uno come lui, che pur essendo spesso in giro per il mondo trova sempre il tempo di scendere in Istria ed a Pola, è come se fosse rimasto dove nacque e dove visse infanzia e adolescenza, quando frequentò, appunto, le classi ginnasiali alla “Dante” al Castello. Questo ricordo è stato condiviso con alcune compagne di classe presenti in sala, che hanno omaggiato il “buon ragazzo” con le foto di quel periodo scolastico.
Ha preceduto il momento della relazione il saluto all’autore di Silvana Wruss, che ha parlato in breve dell’importanza della memorialistica, filone letterario conosciuto fin dai greci; importanza che si può riassumere in questa frase, espressa sempre dalla professoressa: “È di fondamentale importanza lasciare momenti dei tempi passati alle nuove generazioni”.
Ha raccontato i (trenta) racconti, poco dopo, Fabrizio Radin, perché, ha affermato, è il modo migliore di parlarne assieme al pubblico, che non deve averli letti per forza. Chi non l’ha fatto, ha assaporato comunque queste storie ricche di una vita d’altri tempi, scritte per lo più in dialetto istroveneto, raccontate con dovizia di particolari e infine lette parzialmente agli astanti da un bravo attore/lettore, Šandor Slacki.
Apre la raccolta il brano che le dà il titolo, quindi è in esso che Stanich spiega l’istinto di tornare nel luogo natio, fortemente radicato in lui. “Via Medolin”, continua Radin, è il brano di un’ex via di periferia, marchio di Pola, come le Barache, Drio l’Arena ed altri mitici rioni. “El figher de mio nono” (“co’ iero picio iera guera, la seconda guera per intenderse, e se stava mal”) parla dei tempi della fame e dell’industriosità delle donne, alle quali era riservato l’impegno più grande, quello tragico di procurarsi del cibo in momenti di vacche magre e di farlo soprattutto per i figli. Così, coraggiose fino in fondo, queste madri di famiglia inforcavano la bicicletta e si arrischiavano di andare nei paesi vicini, dove i contadini scambiavano il cibo per altre vettovaglie o, a detta di Radin, anche per l’oro.
Racconto nel racconto anche per “Le braghe dell’inglese”, “Le pantigane de mar”, “Il treno blu” (spassoso brano in cui si racconta che durante una visita del presidente della Birmania a Tito l’orchestra intonò “La mula de Parenso”), “La pension de l’Austria”, “La partida de balon” (con i muli del Grion e il preside Volghieri provetto velista), “Andavimo a l’opera” e “Al cinema Beograd ex Nazionale”. Gli ultimi due scritti ci riportano, il primo al periodo prima della guerra, quando si andavano a seguire i melodrammi (eseguiti a teatro da alcuni attivisti anche dopo la guerra) e quando i brani delle opere liriche più conosciute erano talmente popolari alla stregua di canzoni d’osteria. Il cinema Beograd (“il mio cinema Paradiso”), ricorda Stanich, era sempre affollatissimo, perché ci andavano, oltre ai polesani, anche i tanti militari di leva. Dopo i film di guerra, di cui ci si era comprensibilmente stancati, s’incominciarono a proiettare film d’azione e western, anche film sentimentali e qualche film italiano. Spassoso l’aneddoto di quando sullo schermo venne proiettato un film di Totò, con mezza sala che rideva subito alle battute e l’altra metà che lo faceva qualche attimo dopo (il film era sottotitolato in croato–serbo). Simpatico anche il particolare sulle “babe”, che dopo un film d’amore ne parlavano per giorni nei loro incontri al mercato. Evocazione del grande schermo anche in un racconto sul barbiere Gigi, innamoratissimo di Alida Valli, tanto che quando se ne andò all’altro mondo lo fece con una foto della bella attrice in tasca.
E ancora: “Circo savata”, “Fionda”, “Nozze istriane”, quando ci si sposava per contratto o per amore, e quando, per quel che importava di più ai convenuti, si mangiava bene fino a farsi scoppiare la pancia. Anche “el pan dela nona” e le “luganighe nostrane” (“protagonisti” di altri due racconti della raccolta) rievocano la bontà del cibo fatto in casa, mai più assaggiato, perché quel pane cotto lentamente nel forno a legna o anche tra le braci e offerto generosamente ai nipoti con un po’ di lardo, è una bontà che mai verrà scordata.
Rosanna Mandossi Benčić