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Ritorno a Tribano (cittanuova.it 05lug13)

Una vacanza sui generis, non c’è che dire, la mia di qualche anno fa: si poteva considerarla tale giusto perché rientrava nel periodo di ferie, in agosto; ma per il resto… Rivedere l’Istria, i luoghi della mia infanzia, dopo 36 anni che ci mancavo: ci pensate? L’idea mi era venuta a Palermo, al tempo che, come veterinario, andavo sempre in giro per campagne solitarie e avevo tutto il tempo per pensare.

A contatto con la terra e i contadini di Sicilia, mi era riaffiorato dentro il ricordo di altri luoghi e di altra gente: tutto un mondo che mi ero lasciato alle spalle e che avevo tenuto sepolto in me, un po’ perché il ricordo sarebbe stato troppo penoso, e un po’ perché distratto dall’incalzare degli eventi che avevano fatto di me – profugo dopo la guerra, e poi randagio lungo l’Italia per completare gli studi e inserirmi professionalmente nella vita – un essere irrequieto, sempre in cerca di un qualcosa che somigliasse a un approdo.

In un primo tempo l’avevo identificato col matrimonio, con una famiglia mia, che non fosse quella d’origine, ormai dispersa. Poi l’incontro con Dio Amore… e l’approdo fu d’altro genere. E subito un buttarmi a capofitto nella più travolgente delle imprese, votato al servizio del prossimo, con ben poco tempo per pensare al mio passato. Del resto Lui l’aveva detto: «Chi pone mano all’aratro e si volge indietro…».

Così per anni: anni di fuoco, di gioie e dolori sapientemente dosati dalla provvidenza. Quand’ecco una prima malattia… un’altra… un’altra in arrivo. Cosa mai voleva dire quell’imprevisto che mi toglieva dalla mischia, dall’avventura di costruire il regno di Dio insieme ad altri fratelli? Mi era parso di capirlo poco alla volta. Forse, era necessario che il cristianesimo per così dire “allo sbaraglio”, vissuto fin allora, diventasse più profondo, più motivato, in una “revisione di impostazione” – così la chiamavo – dove tutto, fin nelle radici, doveva essere discusso, verificato.

In quel crogiuolo, insolitamente riandavo con la memoria alle mie origini, e intanto si acuiva un desiderio: rivedere il mio paese. Poteva essere il ripiegarsi su sé stessa di una persona non più giovane, provata nel fisico e nello spirito. Oppure romanticume. O forse, anche stavolta, amore di Dio, che stava preparando qualcosa di più bello ancora?

Tribano di Buie comparve dopo una curva, col suo grappolo di case color della pietra addossate a una collina, e in cima a tutto il campanile. Entrando in paese, mi ritornò vivido, nell’animo, il senso di angoscia provato per quell’ “esodo”, nel ’43, quand’ero ancora un ragazzo. Per le stradine, solo volti sconosciuti: quei rari italiani che conoscevo, rimasti dopo l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia, chissà che fine avevano fatto.

Aldo, mio cugino, fece fare alla macchina un paio di giri, divertito dalle mie esclamazioni ad ogni sito che riconoscevo. Finché, mentre svoltavamo verso la campagna, una donnetta dai capelli grigi sbucata da non so dove gettò uno sguardo nella vettura e riconobbe lui, che ogni tanto si faceva vedere da quelle parti; poi guardò me e, sgranando gli occhi per la sorpresa, esclamò in quel mio dialetto natio mezzo veneto e mezzo slavo: «Ma tu sei il figlio di Pietro!». Somigliavo infatti molto a papà. Le risposi nello stesso dialetto, ritrovandone il gusto in bocca. E lei: «Ma che fai qui, fermati da noi…».

Quella donna – seppi – era stata molto amica di mia madre e aveva sposato uno dei pochissimi italiani rimasti lì, dopo l’arrivo degli slavi. Ora insisteva per ospitarmi a casa sua per qualche giorno. Un invito provvidenziale in quella ripresa di contatto con la mia terra, con la mia gente… Il desiderio di rivedere quella che era stata la casa della mia fanciullezza era irresistibile (non si può capire cosa significhi, per chi viene da un ceppo contadino, il focolare paterno…). Prima di riprendere – stavolta solo – la strada per Trieste, Aldo acconsentì ad accompagnarmici. Era ancora lì, allineata con altre case simili, quasi immutata. Bussai. Gli inquilini, slavi, erano appena tornati dal lavoro dei campi. L’accoglienza fu schietta, cordiale (più tardi ci avrebbero invitati a mangiare qualcosa con loro).

Quando spiegai il motivo di quella insolita visita, non vollero sapere altro: mi invitarono ad entrare, e con toccante delicatezza si intrattennero con mio cugino dabbasso, mentre io salivo al piano superiore per la scaletta di legno, che era rimasta quella di sempre. Davanti alla porta della mia cameretta il cuore accelerò i suoi battiti. Non dimenticherò mai l’intensità quasi sacra del momento in cui abbassai quella maniglia che era stata toccata dai miei, ed aprii la porta. E la rividi, quella cameretta, com’era una volta, non come era stata trasformata nel tempo; rividi, tra le lacrime che lasciavo scorrere senza ritegno, i mobili, lo specchio, il quadro, il mio lettuccio… che non c’erano più, mentre il soffitto era rimasto identico: un soffitto di travi rozzamente squadrate, ognuna delle quali avevo imparato a conoscere alla perfezione, nelle mie veglie da bambino. Erano ancora lì: non oggetti inanimati, ma vivi, parlanti.

Al primo piano, papà aveva costruito un piccolo belvedere sostenuto da colonnine. Da lassù gli occhi spaziarono sulla costa biancheggiante di paesini, sul mare lontano sette-otto chilometri in linea d’aria, e ancora oltre: là dove, quando il cielo era terso, s’indovinava il campanile di San Marco, Venezia. E di nuovo lo sguardo vagava irrequieto su quei declivi che, da lontano, erano proprio come una volta, anche se meno coltivati: là c’era il campo dello zio, là la vigna di Bortolo… Da quel terrazzino, una notte, avevamo anche assistito ad una battaglia navale: i boati e le fiammate dei cannoni, le scie luminose dei proiettili, più che parere una scena di morte, a noi ragazzini facevano venire in mente gli spettacoli pirotecnici… Rimasi lì a lungo, a ricordare; finché dal di sotto mi raggiunsero dei richiami. Era bruscamente, di nuovo, il 1979.

«Il noce l’ha piantato il nonno, l’olmo il nonno del nonno…» e così via.

Nulla di strano se, a sentire questi discorsi, mi ero messo in testa che anch’io dovevo piantare il “mio” albero per rimanere nella storia. Giovane e inesperto però (avrò avuto 13-14 anni), avevo scelto un cantone tutto sassoso della strada davanti casa; e i miei a ridere e a cercare di dissuadermi, tanto la pianta non avrebbe attecchito. Inesperto, sì; ma anche puntiglioso. E l’avevo trapiantato, il piccolo ippocastano, solennemente, come in un rito. Avevo voluto perfino eternare l’avvenimento, scalpellando la data sulla pietra del muricciolo a ridosso. Via io, però, che lo innaffiavo puntualmente, in breve l’alberello era seccato. Quella “lapide” doveva esserci ancora, sotto il muschio morbido come velluto. Grattai con l’unghia là dove approssimativamente mi ricordavo il posto; finii di pulire la pietra, e fu con indicibile emozione che lessi: «8 agosto 1940».

Il cimitero, la tomba di papà. A stento la riconobbi, giacché al suo posto c’era un’altra sepoltura. Dovunque erbacce e trascuratezza. E quelle lapidi, dove i nomi italiani erano stati sostituiti… E avanti, per strade sassose e assolate, a cercare fra le tante “foibe” (voragini che si aprono nel terreno carsico) una in particolare, meta di esplorazioni infantili. Ci raccontavano che lì in fondo, nei tempi antichi, non so più se uomini del luogo o esseri misteriosi sedevano per certe riunioni su dei cippi di pietra. Tante volte noi ragazzi c’eravamo calati laggiù trepidanti, facendoci lume con qualche candela, ma nessuna traccia di quelle vestigia. Cosa aveva da dirmi quel luogo ora che la giovinezza era ormai lontana?

La ritrovai quella “foiba”, ma con l’apertura così ostruita dai rovi che riuscii solo a strapparmi i vestiti. Niente da fare. Risalii con in bocca l’amaro di un amore non corrisposto. Le campagne, in buona parte inselvatichite, presentavano un aspetto desolante in confronto al giardino che erano state un tempo. I nuovi abitanti le avevano bensì occupate, ma lasciandole pressoché incolte: preferivano per lo più emigrare per lavoro a Trieste o altrove, oppure imbarcarsi. Una volta vi si incontravano certe capannucce fatte di pietre senza malta, che servivano come schermo contro la pioggia o la calura. La vista di una di esse, sopravvissuta al tempo, mi sgombrò il cuore dall’amarezza che l’aveva invaso, riportandomi al tempo in cui con i nonni, gli zii e i cuginetti sostavamo all’ombra di quei ripari per un pasto frugale. Ero solo, nessuno poteva udirmi: pronunciai i nomi dei miei morti, e parlando con loro ritrovavo in me care sensazioni, i sentimenti e la freschezza del ragazzo di un tempo.

E poi la quercia secolare. Dopo tanti anni era ancora lì, accanto allo stagno – ora tutto limaccioso e straripante di erbe palustri – dove si abbeveravano gli animali. Pareva aspettarmi. Con i suoi rami nodosi, la sua ombra invitante, era l’apparizione di una creatura viva, palpitante. Faceva tenerezza. Le parlai… In cima ad un colle mi accolse quella che era stata “la vigna” per eccellenza, circondata da un muricciolo: un rettangolo perfetto, con quei quattro cipressi che la vigilavano ai quattro angoli. Ora era tutta sterpi ed erbacce; di tre cipressi ritrovai soltanto il ceppo marcito, che pareva gemere; restava il quarto, tutto intisichito. Mi misi a riposare sul muricciolo all’ombra del cipresso superstite, il capo poggiato su una pietra: un omaggio alla vita austera dei miei vecchi.

Prima di partire da Palermo, immaginando la difficoltà di trovare messe e sacerdoti, avevo ottenuto il permesso straordinario di portare con me alcune particole consacrate. Le custodivo nel mio inseparabile tascapane, anche durante quelle escursioni, perché non mi fidavo di lasciarle altrove. Ma più per un altro motivo: portandomi appresso Gesù, immaginavo che lui fosse contento di ripassare per quelle contrade, per quei campi sommersi nella sterpaglia, accanto al cipresso agonizzante, alle tombe abbandonate, alle chiese e ai campanili decrepiti… Sostai all’ombra di un gelso. L’aria era immota e dal cielo senza nuvole pareva piovessero fiamme. Nessuna presenza né voce umana, solo il frinire sonoro delle cicale. Cosa m’impediva di fare la comunione ora? Estrassi dall’astuccio l’ostia e la tenni sollevata per alcuni secondi nella luce abbacinante della mia terra natia, che tra poco avrei di nuovo lasciato. Piangevo, ma nella pace, come per una riconciliazione. Intorno le cicale continuavano il loro concerto assordante.

Oreste Paliotti
www.cittanuova.it 5 luglio 2013

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