E la folla incantata sotto il Comune calpestava le stesse pietre dove Mussolini nel 1938 aveva proclamato le leggi razziali da un palco a forma di torretta di sommergibile, premessa nefasta della seconda guerra mondiale.
Era fatale che costoro rifiutassero la gioventù e la bellezza in nome di un ostinato e livido rancore. Meglio, molto meglio per loro l'osceno spettacolo notturno dei giovani allo sbando, perduti tra avanzi e bottiglie rotte, intontiti di musica-spazzatura in quella stessa piazza, degradata da troppe estati a immondezzaio di Trieste. Su questo essi non hanno avuto mai niente da ridire, perché era meglio che la città non sapesse che la sua piazza maggiore era costruita per l'armonia e non per la dissonanza o il frastuono.
Gli assenti, si diceva. Non erano assenti qualunque. Erano gran parte della giunta comunale. L'espressione di una strana banda dove c'è chi non sopporta gli inni nazionali stranieri e chi odia persino l'inno italiano. Una coalizione che non si sa quale rapporto abbia con una città che in queste ore li ha ampiamente superati in lungimiranza. Una giunta che non avrebbe mai organizzato e nemmeno concepito un evento simile. È giusto che si sappia: questo concerto che ha dato visibilità enorme a Trieste è avvenuto NONOSTANTE la giunta che la governa.
Inutile girarci attorno. Martedì sera si è compiuto un atto di esorcismo, teso a liberare Trieste e i suoi vicini stranieri dalla zavorra delle loro nere memorie. Muti ne è stato il gran sacerdote, lo sciamano. È arrivato, vestito di nero, non si sa se arcangelo o Belfagor, e in un cielo che si preparava al temporale ha compiuto l'atto che finora nessuno aveva avuto il coraggio di compiere. Era questa magia che si temeva, non l'episodio marginale delle corone d'alloro, e l'esorcismo fa male assai a chi è posseduto.
Ho visto tanti trepidare, persino piangere di gioia, già nei giorni della vigilia. Erano quelli che avevano aspettato inutilmente per decenni un evento simile. Quelli che in silenzio, ignorati e spesso osteggiati, avevano lavorato nel loro piccolo per abbattere le barriere fisiche e mentali che impediscono alla città di volare. Quelli che non ci speravano più, ormai. Quelli che fino a ieri hanno guardato annichiliti alla sistematica umiliazione dell'identità stessa di Trieste, della sua anima plurale, mediterranea e centro-europea. Trieste tradita, aggredita nella sua diversità e nel ruolo di capitale a Nordest.
Ma la musica di fratellanza ha fatto male al piccolo sinedrio degli scribi e degli azzeccagarbugli che da più di cinquant'anni vivono di rendita sulla mancata soluzione dei nodi della memoria. Quelli per cui chiedere scusa significa "genuflettersi", e suonare inni altrui "calare le brache". Li conosco bene, dei morti non gliene importa niente. Gli importano le loro "careghe". Dicono da anni le stesse cose. Fingono di ringhiarsi a vicenda tra Italia Slovenia e Croazia, ma in realtà si fiutano perché hanno in comune una grande paura: che il confine sparisca, perché senza il confine sarebbero spazzati via. Per questo lo evocano con accanimento terapeutico, anni dopo la sua morte clinica.
Era inevitabile, in questo gioco, che a spezzare il maleficio fossero non degli indigeni ma dei forestieri. Parlo di Muti e di sua moglie, e soprattutto di quest'ultima, che è il vero motore del Ravenna Festival. So quanto ci hanno creduto e quanto hanno trepidato per le tensioni della vigilia. Ho visto nascere questo concerto, crescere e articolarsi giorno per giorno dal semplice desiderio di recitare un requiem per coloro che avevano sofferto in queste terre. E oggi, davanti alla grande catarsi, posso dire che se Trieste avesse un decimo del coraggio e dell'entusiasmo espresso da questa coppia, volerebbe alto.
Ma il concerto dell'amicizia guidato dal Grande Sciamano è stato anche una chiamata alle armi, una mobilitazione, un appello a tutti coloro che conoscono il nesso perfido tra l'ibernazione di memorie irrisolte e l'impossibilità di ridare a Trieste il ruolo che ebbe negli anni grandi del mare e dei commerci. Ora abbiamo la possibilità di andare oltre e di lasciare agli storici e non ai soliti necrofili il compito di chiarire il passato. La lectio magistralis dei giovani sul podio – commoventi e indistinguibili per nazione – è stata proprio questa.
Il sindaco – lasciato solo dalla sua maggioranza – ha avuto un bel ruolo propulsore. Appena ha capito cosa si stava preparando – era ancora inverno – è partito travolgendo ogni ostacolo. Con logica mercantile, dirà qualcuno. Ma che importa. Meglio un mercante che un politico necrofilo. Nello stesso tempo, a propiziare l'evento, hanno lavorato anche parte del mondo degli esuli e delle organizzazioni slovene di casa nostra, con un'azione di diplomazia sommersa che ha smussato gli spigoli e scongiurato irrigidimenti di parte. Anche loro hanno capito che era ora di andare oltre.
Le forze dell'ordine sono andate a meraviglia, non hanno eccessivamente blindato un evento che richiedeva partecipazione popolare per riuscire, e hanno reso poco visibile l'apparato di protezione dei tre capi di Stato. Hanno capito che le transenne – usate in modo troppo rigido – avrebbero avuto poco a che fare con un concerto costruito per abbattere barriere. Anche grazie a questo, martedì sera ha vinto l'armonia. Sarebbe stato il colmo di trovare a Trieste – 65 anni dopo l'ultima guerra – difficoltà maggiori che in Bosnia – terra di ferite ben più fresche – nell'analogo concerto del luglio 2009.
Era felice Muti dopo il concerto. Felice di aver diretto dei giovani appassionati e di averli preparati nella trasferta preliminare in terra di Ravenna. Lì qualcuno mi ha fatto notare che le violiniste portavano sul collo il segno di un piccolo callo dovuto al contatto continuo con lo strumento. Ecco: quella trascurabile imperfezione era in realtà il simbolo di un connubio ideale tra disciplina e bellezza. Bellezza antica e incontaminata, nel Paese delle veline dove tutto è in vendita.
Sono passate ore, ma il golfo è ancora pieno di quella musica e di quel canto. A pensarci, non so che cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo. Poco o niente. Ora è tempo di lavorare per essere all'altezza di questo dono e perché questa eco non si disperda. Quel palcoscenico sul lato del mare e non del palazzo era il segno di un capovolgimento nella lettura della città, del ripensamento di una piazza che ora ci appare più nobile e persino più grande.
Un giorno vi racconterò come è nata l'idea di questa trasferta. Per ora resta il messaggio. «Venga da noi, abbiamo così bisogno di armonia…», disse una sarajevese quando vide Muti a spasso per la sua città nell'aprile dello scorso anno. Lui rispose: «Cara signora, se ci fosse armonia ovunque, io non avrei più un lavoro». Significava, indirettamente: il mio mestiere è proprio quello di colmare i vuoti di concordia. È questa la mission del Maestro, ed è questo il senso, da anni, della grande serata finale del Ravenna Festival. In Armenia, Libano, Bosnia o New York Ground Zero che sia.
Trieste è andata oltre le aspettative, e l'eco del suo lungo applauso è sceso come una pioggia benedetta dopo una siccità interminabile.
Paolo Rumiz