ANVGD_cover-post-no-img

Scotti: non nego i fatti ma li contestualizzo (La Voce in Più Cultura 19 lug)

Nell’ultimo numero di questo speciale “La Voce In Più Cultura”, uscito il 24 giugno, abbiamo pubblicato la

prima parte dell’intervista con Giacomo Scotti, lo scrittore, poeta, ricercatore, traduttore e operatore culturale che quest’anno compie ottant’anni. Campano, giunto in Istria alla fine della Seconda Guerra Mondiale, Scotti ci ha raccontato le tappe salienti del suo percorso biografi co nella prima parte dell’intervista: stavolta affrontiamo con lui i temi che riguardano la sua attività e più in generale la complessa vicenda del nostro territorio.

 

        *Dopo il suo arrivo in Jugoslavia, intraprende la carriera giornalistica collaborando con tutte le testate italiane dell’epoca: “La Voce del Popolo”, “Orizzonti”, “Donne”, “Vie giovanili”, “La nostra lotta”. Quando nasce invece la voglia di scrivere, di fare letteratura”?

 

Da subito. Già nel ’48 ho incominciato a collaborare con il “Pioniere” con dei raccontini. Ma anche Sergio Turconi aveva inaugurato una terza pagina letteraria all’interno della “Voce del Popolo”. Noi siamo una piccola comunità e per lasciare il segno dobbiamo moltiplicare la nostra professionalità. Così io ho fatto il giornalista ma anche il

poeta, il narratore, il favolista, il saggista, lo storico.

 

        *E qual è lo Scotti preferito da Giacomo Scotti?

 

Il poeta. In prosa non sono mai riuscito a fuggire dall’autobiografia. Quel che ho scritto in prosa, molti racconti, hanno sempre un carattere autobiografico, e poi c’è anche un po’ di giornalismo che appesantisce i racconti”.

Un’altra cosa è la prosa per l’infanzia, in cui domina la fantasia. Lì sono andato meglio.

 

        *Dunque se uno vuole conoscere Scotti, deve leggere la favolistica e la poesia. Poi ovviamente c’è l’attività di ricercatore con l’Isola Calva, le foibe, la Resistenza, il mare. Dalla sua prima silloge in versi “Alba d’Oro” del 1960 all’ultima “Tra due mari” del 2006, ha pubblicato venticinque raccolte di versi. Molte di queste sono state tradotte in varie lingue. In quale si ritrova di più?

 

Credo che una delle migliori sia stata “In viaggio, la vita” che il critico Bruno Maier ha accolto con grande gradimento tanto che ha voluto scrivere la prefazione. Anche oggi, quando prendo in mano questo libro, trovo alcune delle mie migliori poesie. Un altro libro che mi è molto caro è “Fiumi segreti

 

        *La critica ritiene che il suo talento poetico viene a galla meglio quando affronta temi intimi, legati ai turbamenti dell’uomo. Oppure quando scrive versi sulla natura, il mare in primo luogo. Eppure non ha resistito alla tentazione

di scrivere poesie d’occasione, contestate da molti, quali “Tito”. Voleva sentirsi parte degli eventi?

 

Vediamo di spiegare. Io nella poesia ho sempre visto anche un diario. La mia poesia è un continuo diario dei giorni che passano, quindi ci trovi anche poesie come questa che lei ha citato. Per quanto riguarda la poesia “Tito” chi non conosce ciò che sta dietro alla poesia, addirittura me la rinfaccia come una delle prove di una mia presunta

antiitalianità. Invece quella è stata una poesia in difesa dell’italianità. La poesia è stata pubblicata nel ’72, ed era stata scritta proprio in quei mesi quando i nostri ragazzi di Fiume sono stati prelevati dalle scuole e portati a Castua a sentire un discorso di Savka Dabčević Kučar. In quel momento Savka Dabčević, che era una specie di capopopolo,

era da una parte primo ministro della Croazia e membro del Comitato centrale del Partito comunista, dall’altra era capo del movimento di massa, il Maspok, allora ritenuto corrente nazionalistica in Croazia. A Castua i nostri ragazzi

sono stati massacrati di botte perché parlavano in italiano. Il fatto mi è stato raccontato da Mario Schiavato (e anche lui si era preso una volta qualche randellata per aver parlato in lingua italiana) ed io in quel momento ho scritto quella

poesia invocando Tito come scudo contro questi fenomeni d’intolleranza.

Un po’ come hanno fatto più tardi gli Albanesi del Kosovo minacciati da Milošević. Basta analizzare i versi di quella poesia che dicono più o meno “…noi abbiamo dato la vita, il nostro sangue per te, insomma, salvaci da questo disastro”. Questa poesia è stata scritta in nostra difesa.

 

 

        *Poi ha scritto “Soffrendo per la Croazia”

 

È stato tutto un ciclo scritto durante la guerra in Croazia. Quando tutti esaltavano la guerra, qua in Croazia, dai più grandi poeti fi no agli ultimi poetucoli cosiddetti patriottardi pubblicando un’antologia, curata dall’attuale premier

Ivo Sanader che l’ha fatta tradurre in tutte le lingue del mondo, io invece ho scritto versi sulle madri che si strappano i capelli, mi sono posto domande del tipo “cosa ci diranno i nostri figli ”, “ma cosa avete fatto”? Quella raccolta era

una condanna della guerra. Io credo di aver fatto il mio dovere anche in quel momento, mi sono ribellato alla guerra.”

 

 

        *Veniamo alla saggistica con i due grandi nuclei: il lager dell’Isola calva e le foibe. Cos’ha rappresentato per lei la tremenda scoperta di Goli Otok?

 

Un giorno in autobus a Fiume incontro Gino Kmet, padre della giornalista Irene Mestrovich. Siamo nel 1989, le bocche sono ancora cucite. Kmet mi riconobbe il coraggio per aver scritto alcuni articoli in cui svelavo alcune verità

tremende (ma aveva avuto coraggio anche Ezio Mestrovich a pubblicarli per “La Voce del Popolo”) e mi propose di scrivere qualcosa sull’Isola calva. Io sapevo solo che lì c’era un penitenziario, ma scesi dall’autobus, ci sedemmo in un bar e Kmet mi raccontò tutto. Io gli risposi che ero già in un mare di guai ma che avrei scritto qualcosa se lui mi avesse coperto le spalle. Così pubblicai le prime cose per “La Voce”, poi anche per “Panorama”. Quando uscì il primo articolo, due colonnine in corsivo, iniziai a ricevere lettere con nuove testimonianze. Emilio Tomaz mi disse che a Goli c’era stato anche lui, come pure Ligio Zanini che poi pubblicò tutto il suo calvario. Da Lussinpiccolo un certo Giannetto mi mandò un memoriale, mi contattarono Baccarini da Fiume, Ferruccio Nefat da Pola e poi Meconi

il papà della prima caporedattrice del “Pioniere”. Un giorno Rosanna Turcinovich mi disse che il regista Franco Giraldi chiedeva la mia autorizzazione per girare qualcosa per la Rai e poi la casa editrice “Lint” di Trieste mi chiese di farci

un libro.

 

        *Gran brutta cosa quel regime.

 

Io non ho mai avuto dei. Se uno mi mette di fronte a certe verità io le scrivo. Basti pensare che siamo stati proprio io e Luciano Giuricin i primi a scrivere degli articoli sulle foibe, ma proprio nel senso di rivelare che le foibe c’erano state

mentre tutti gli altri ne negavano l’esistenza. Dopo due-tre mesi che noi scrivevamo sulla “Voce del Popolo”, lo storico croato Antun Giron ci inviò un articolo in cui diceva di aver trovato una lista degli infoibati.

 

        *Ma allora cos’è che non ha funzionato? Nella percezione degli esuli Scotti è un negazionista e non può parlare di foibe. E Menia avanza interpellanze parlamentari riesumando le sue vecchie poesie.

 

Qui devo rispondere ricorrendo ad un concetto di Guido Crainz: . noi dobbiamo guardare sempre anche al dolore degli altri. Il discorso sulle foibe va contestualizzato con quello che c’era stato prima, con la violenza fascista contro

gli slavi. Documentandomi sulle foibe ho incontrato persone alle quali i fascisti hanno ammazzato otto fratelli. Quando si va a Lipa, se parli con la gente, con i pochissimi superstiti, due famiglie di tutta Lipa e dici loro che i tedeschi

hanno sterminato tutto il paese, loro ti rispondono che a metter in fila gli abitanti poi ammazzati erano stati gli Italiani del presidio di Rupa. Fascisti italiani. Di solito si dice che i tedeschi erano più duri, ma ci sono casi in cui anche gli italiani non furono meno feroci: basti pensare a Bradamante a Pola, che i tedeschi stessi denunciarono per

eccessiva malvagità. Voglio dire il dolore degli altri bisogna ricordarlo. Io dico, ci sono stati vent’anni di fascismo che hanno armato gli altri di sete di vendetta. Ma non per questo non ho dato ragione a Furio Radin quando ha chiesto uffi

cialmente che fosse posta un croce sulla foiba di Vines. Che in realtà non si trova a Vines ma a Mali Golji.

 

        *Tutti gli italiani onesti si vergognano dei crimini compiuti dal fascismo. Ma non le pare che poi il comunismo in Istria abbia fatto altrettanti danni? Specie se è vera la frase di Milovan Đilas per la quale la cacciata degli Italiani

dall’Istria e da Fiume era figlia di un disegno politico jugoslavo.

 

Io l’ho trovato questo documento di Đilas che viene citato spesso. Đilas non aveva poi detto proprio così ma aveva denunciato il fatto che contro gli italiani erano state compiute delle ingiustizie, tanto che il potere stesso inviò una

commissione d’inchiesta guidata da Vida Tomšič. Il fatto è che ad andarsene via sotto le pressioni ed il terrore non furono soltanto gli italiani, tutta l’Istria interna si è spopolata, non solo Grisignana o Montona, ma voglio dire anche

l’Istria interna croata.

 

        *Tuttavia, con l’arrivo del comunismo jugoslavo, il danno demografico subito dall’Istria con l’esodo è  praticamente senza precedenti

 

Questo nessuno lo nega, anzi…

 

        *E a cosa si deve l’esodo?

 

Una studiosa britannica, che si è fermata in Istria per alcuni mesi, ha trovato oltre cento motivazioni: i motivi economici e politici, naturalmente, sono i principali, anche quelli familiari”.

 

        *La gente è sempre andata via per motivi economici, ma non tutti in una volta.

 

 Infatti, la studiosa inglese ha analizzato questo fatto. Lei, come tanti altri, individua molte tappe dell’esodo, ad eccezione di Pola dove è stato organizzato, dove c’era un Comitato per l’esodo sin dal ’46. Si è scoperto che le varie

tappe coincidono sempre, guarda un poco, con qualche grosso sconvolgimento politico. Quando muoiono le speranze per una zona B italiana la gente se ne va dal Capodistriano e dal Buiese; poi c’è stato il periodo delle nazionalizzazioni che ha fatto fuggire gli agricoltori e i piccoli possidenti, c’è stato un periodo rosso, quello del Comimform, dal ’49 al ’51, quando sono andati via i partigiani, comunisti che quando non sono partiti, o sono morti

o sono andati loro per primi a Goli otok.

 

        *Paura della Jugoslavia? Paura del comunismo?

 

Noi non dobbiamo parlare di comunismo o di socialismo perché in Istria, man mano che venivano a generarsi i vuoti, a cominciare da Pola, da Fiume e così via, questi vuoti venivano demograficamente riempiti da gente che veniva dall’interno: gente che non era comunista e che pur militando nelle file del Partito comunista era nazionalista.

Per essere più cattolici del papa, additavano gli italiani come fascisti, tanto che prese piede il binomio italiano-fascista. Qua c’è stato un nazionalismo feroce, in Istria come nel Far West, dove i bianchi combattevano e sterminavano gli indiani. La stessa cosa è successa qua.

 

        *Perché quest’animosità antiitaliana?

 

La Repubblica Serenissima di Venezia è stata per cinque secoli la padrona dell’Adriatico, del Golfo veneziano e della gran parte della Dalmazia fino all’Albania veneta. Ha rispettato queste persone, gli slavi, nella lingua, nella dignità, in tutto. Ricambiata: i migliori reggimenti della Serenissima erano i reggimenti schiavoni  mentre i Dalmati furono gli ultimi a difendere la Repubblica di Manin. Persino quando l’Austria rimase senza il Lombardo Veneto e cominciò a privilegiare gli slavi, l’italianità qui veniva ancora rispettata e verso l’Italia si nutriva sempre una grande ammirazione. Tutti i dalmati andavano a studiare in Italia, non andavano a Innsbruck. Con l’aggressione alla Jugoslavia nel’41 Mussolini ha distrutto cinque secoli di storia.

 

        *In definitiva, cosa risponde ad un esule ipotetico che lo accusa di negazionismo?

 

Io il negazionismo lo rinfaccerei a quelle persone che negano tutto, che le foibe non ci sono state, che le persecuzioni non ci sono state, io questo non lo nego anzi sono uno dei primi a metterlo in piazza e l’ho pubblicato anche sui giornali italiani, quindi…”.

 

        *Contesta i numeri…

 

Comincio a contestare i numeri già dell’esodo. Premetto che se ne fossero andati anche solo centomila italiani, considerata l’esiguità della popolazione istriana, sarebbe un massacro: un popolo che è andato via, un popolo intero.

Tuttavia, poiché dai registri delle questure di Pola, Fiume e Zara scopriamo che nelle tre province vivevano circa 450 mila persone, non possiamo non contestare chi dice che l’esodo coinvolse 350 mila persone. Una cifra ripresa da un discorso di Tito rivolto contro i nazionalisti croati e che è stata presa come una palla al balzo. Fosse così, oggi qui non ci sarebbe più nessuno. Io accetto semplicemente la cifra alla quale sono giunti alcuni storici italiani, in base ai quali ad andarsene furono 180 mila italiani e altri 80 mila croati e sloveni antititini anticomunisti. In totale 240 mila

persone che è la cifra più o meno esatta. Comunque qua un popolo ha lasciato le sue case, si è spopolata

una regione, è questo il dramma. Quello che io rinfaccio a certi vertici di certe organizzazioni più o meno di destra è la loro volontà e insistenza di speculare troppo sia sulle cifre sia sul dolore, senza mai vedere le proprie colpe. Troppo

spesso ci si scorda che il fascismo non ha neanche dichiarato la guerra, ha aggredito la Jugoslavia per allargarsi e poi alla fine ha perso queste terre nel modo peggiore, con gli eccidi, con campi di concentramento vicino a Lubiana,

Trieste, a Gorizia, con i 45 giorni dell’occupazione jugoslava di Trieste. Chi ha pagato il prezzo di tutto questo? Gli Istriani, i Fiumani, gli Zaratini, loro hanno perso. Ora proprio sulla pelle di queste vittime si è speculato per tanti anni e si specula continuando a seminare rancori. Ma quando la finiremo? Cerchiamo di sederci una volta al tavolo, studiamo

i libri, però scriviamo anche come è possibile ricostituire, per stare insieme, per conoscere questa civiltà, questa bellissima terra che è l’Istria alla quale ho dedicato tanti anni della mia attività anche letteraria.

Me ne sono innamorato, anche nel dolore, quindi mi chiamino pure negazionista, potrà essere un’etichetta politica ma io non credo di meritarmela”.

 

        E le foibe?

 

Nelle cifre delle foibe spesso si mettono a sproposito anche i morti in varie altre maniere. Ad ogni modo, qualsiasi numero è una cifra enorme: se penso a mio fratello che l’hanno ammazzato i tedeschi, mi basta quell’uno perché mi faccia più male. In un discorso generale è importante ricordarsi di tutti i morti ingiustamente: la Seconda Guerra Mondiale ha fatto 24 milioni di morti, io non so perché non si parla di questi 24 milioni, si parla sempre dei 6 milioni di ebrei sterminati. Ma anche 4 milioni di polacchi, 8 milioni di russi, quasi due milioni di jugoslavi, centinaia di migliaia di francesi, italiani. Ma i morti bisogna rispettarli, non specularci su.

 

        Gira sempre con dei bigliettini, con la penna, prende appunti. Lei ha scritto tantissimo, non esiste nessuno all’interno della CNI che abbia scritto tanto. Come si documenta?

 

Trascorro almeno due o tre giorni la settimana presso la Biblioteca scientifica di Fiume oppure in qualche archivio. D’estate vado a Ragusa, vado a Spalato dove ci sono archivi enormi di documenti in lingua italiana, e anche in croato naturalmente, che sono inesplorati. Lì le cose si trovano e io le riporto a galla. Poi, come dire, ho preso l’abitudine

di lavorare e di scrivere sempre. Alla mia età ciò mi mantiene in forma sia fisicamente che mentalmente.

Io capisco il grosso danno che potrebbe giungere da certe cose, forse sono occupato con troppe cose. Avrei dovuto limitare lo spazio a poche, forse o soltanto alla letteratura o altro, oppure solo alle analisi storiche. Però indietro

non si può tornare: spero che nella quantità forse si possa trovare anche della qualità.

 

        *Mi dica un paio di aggettivi per esprimere la sua vita oppure se stesso.

 

Infaticabile, già che parliamo di questo, e poi curiosità e simpatia per il più debole.

 

        *Giacomo, perché scrive”?

 

Mah, per non morire direi, per sentirmi vivo, ecco.

 

        *Per quel che riguarda la cultura della Comunità italiana rimasta, lei ha coniato l’espressione di “piccola Italia”.

 

Noi siamo una piccola Italia, “piccola” perché siamo in pochi. Ma siamo un’Italia, non siamo  degli emigrati. Beh, lasciamo il mio caso personale, mio e ancora di qualche decina di persone che sono venute da altre parti. Questo è

un popolo che è rimasto sulla sua terra, da italiano, prima e dopo la sovranità italiana. Oggi un’Italia fuori dai confini, non è il Canton Ticino, non è Cantone dei Grigioni, dove gli italiani una loro patria l’hanno sempre avuta ed è stata

sempre la Svizzera. Per loro l’Italia è un Paese straniero, ma per questi qua, istriani, fi umani, quarnerini, l’Italia non è un Paese straniero, è il loro Paese, anche se politicamente e statualmente non lo è. Ecco, quindi, è un’Italia piccola, perché è ridotta a quel che è ridotta, però una piccola Italia, questo è il senso che volevo dare. D’altra parte non

amo usare il termine Comunità Nazionale Italiana oppure minoranza italiana perché sono solo dei termini che girano sulle carte burocratiche e che non mi piacciono. Non mi è mai piaciuta né la minoranza né il gruppo etnico, né la Comunità Nazionale Italiana, mi piace dire che è la piccola Italia, siamo un’Italia in piccolo.

 

        Tra gli autori della CNI, chi preferisce leggere”

 

Io leggo tutti i nostri autori che pubblicano. Li ho letti tutti. Naturalmente ho delle mie preferenze. Per esempio Nelida Milani con questa sua mescolanza linguistica e il suo alto livello di scrittura. Mi piace, Claudio Ugussi, il secondo

Claudio Ugussi, quello de “La città divisa”, ma anche Gianna Dallemulle Ausenak di Pola. E poi la poesia di Cocchietto che è una grande poesia. Lui è stato il primo tra noi a scrivere vera poesia, ma purtroppo ha smesso presto: resta comunque una fi nestra illuminata nella nostra piccola storia letteraria”. E poi in poesia Tremul, uno

che ha impresso una piccola svolta stilistica, ha cambiato i ritmi. Purtroppo per il Tremul scrittore, per il Tremul poeta non c’è troppo spazio visto che è oberato da impegni su altri campi, campi politici, organizzativi. Poi c’è Laura Marchig. Laura è una poetessa veramente straordinaria che si raffina in continuazione. Mi piacciono anche i poeti dialettali: Zanini, la Delton, Bonassin, i Benussi di Rovigno e poi la grande Loredana che da un po’ di tempo non si sente più.

 

        Cosa pensa della politica culturale dell’Unione Italiana e del Cenacolo degli Operatori culturali della CNI?

 

Dovrebbe essere molto più aggressiva. Io spero che adesso i giovani che hanno preso in mano le leve riusciranno ad imprimere nuovi ritmi. Auguro loro i migliori successi e li invito a lasciarsi muovere da quell’entusiasmo che una

volta aveva mosso le generazioni più grandi. E possono contare su strumenti moderni, che prima non c’erano, utili per aggredire, aggirare e cancellare confi ni territoriali e mentali. Da alcuni anni la cultura della nostra Comunità comincia ad essere conosciuta oltreconfi ne proprio perché qualche cosa si è fatto. È ancora poco, bisogna avere più fi ducia nelle proprie forze, nelle proprie capacità. Perché le capacità noi le abbiamo”.

 

Silvio Forza

 

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.