Laureata in Storia della Chiesa all’Università degli Studi di Trieste, Anna Millo è attualmente è ricercatore confermato in Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”. Nel 1989 ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia sociale europea presso l’Università degli Studi di Venezia. È stata fra l’altro ricercatore presso l’Istituto regionale per la storia del movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia. Tra i suoi libri di storia triestina si ricorda “L’elite del potere a Trieste” (Franco Angeli, 1989) e “Trieste, le assicurazioni, l’Europa. Arnoldo Frigessi di Rattalma e la Ras” (Franco Angeli, 2004). |
La recente apertura di alcuni archivi e la disponibilità di documenti fino ad ora esclusi alla consultazione ha messo gli storici nella condizione di osservare da angolazioni finora inedita la “questione di Trieste”, il complesso intreccio politico e diplomatico da cui dipese il destino della città negli anni dell’immediato dopoguerra. Tema particolarmente appetito dagli studiosi alle prese con nuovi documenti è il rapporto tra il governo di Roma e Trieste negli anni in cui la città, in bilico tra Zona A e Zona B, fu amministrata da un governo militare alleato. Un contributo importante in questa direzione arriva ora dal nuovo libro della storica Anna Millo, “La difficile intesa. Roma e Trieste nella questione giuliana 1945-1954”, appena pubblicato dalle Edizioni Italo Svevo (pagg. 238, euro 22,00), saggio basato in gran parte su documenti dell’archivio del Ministero degli Esteri, che apre nuove prospettive storiografiche sulla questione giuliana. «Per esempio emerge un coinvolgimento dell’amministrazione e della politica italiane molto più complesso e influente di quanto si potesse supporre, anche se i partiti italiani di governo non furono sempre uniti e coerenti nei confronti della “questione di Trieste”». «Occorre distinguere – risponde Anna Millo – tra le diverse fasi che caratterizzano la vita politica italiana di allora. Prima della firma del Trattato di pace e fino al maggio 1947, anche i comunisti facevano parte dei governi di “unità nazionale”. Avevano un progetto di confine diretto tra Italia e Jugoslavia che evitasse la formazione del Territorio Libero, e si fecero promotori di un rilancio delle trattative tra i due paesi. La scelta di De Gasperi – e anche della diplomazia italiana nella persona dell’ambasciatore Pietro Quaroni, che condusse il negoziato con gli jugoslavi nel dicembre 1946 – fu invece di respingere la proposta, accettando l’alea del Territorio Libero, nella convinzione che potessero nel futuro prodursi migliori condizioni in un contestuale consolidamento della posizione internazionale dell’Italia». Poi cosa accadde? «Immediatamente dopo l’uscita della Jugoslavia dal blocco sovietico, nel luglio 1948 fu lo stesso Quaroni a comprendere per primo come l’ipotesi della spartizione tra Zona A e Zona B si affacciasse come l’esito più probabile. Da qui, nell’incertezza degli anni successivi, l’ancoramento italiano all’integrale applicazione della Dichiarazione tripartita, che nel marzo 1948 aveva promesso la restituzione dell’intero TLT, rimasto allo stadio progettuale, all’Italia». Gli stessi partiti filo-italiani non sempre condividevano le scelte “romane”. I partiti filo-italiani di Trieste (ad esclusione del Msi), pur nelle loro diverse ispirazioni ideologiche avevano radici in culture che si richiamavano alla democrazia e all’antifascismo. Specialmente negli anni dopo il Trattato di pace, quando si comprende che la vertenza internazionale sarebbe stata lunga e di non facile composizione, si rendono conto dei limiti di una linea governativa, impostata sul sostegno all’agitazione propagandistica ed anche ad una cospirazione che non esclude l’impiego della violenza contro gli avversari. Questa linea risultava molto esile sul piano delle proposte politiche e suscitava interrogativi sul futuro modello amministrativo, sulle istanze di autonomia locale, sui programmi per affrontare l’asfittica situazione economica. Il margine di autonomia di questi partiti era ridotto, dato che i finanziamenti arrivavano proprio da Roma, ma non per questo rinunciavano a far sentire la loro voce. Quando comprendono le conseguenze implicite nella linea Pella (rinuncia alla Zona B, prova di forza con il Gma), fra di loro si aprono profonde divisioni e anzi la frattura più grave riguarda proprio la Democrazia cristiana». Il consigliere politico Diego de Castro, figura centrale di quegli anni, lei sostiene che con ogni probabilità continuò ad avere un ruolo nei servizi segreti, come già al tempo della guerra, anche durante il periodo a Trieste. Cosa glielo fa supporre? «È più arduo supporre che ne fosse estraneo, data l’importanza che i servizi italiani avevano assunto a Trieste. Credo tuttavia che il suo coinvolgimento non sia da intendersi come un ruolo diretto e attivo, ma piuttosto come una piena conoscenza e consapevolezza di quanto accadeva, una forma di lealtà verso i vertici politici governativi che lo avevano nominato a quell’incarico e a cui anche quei servizi rispondevano. Questo non gli impedì di prendere decisioni con piena autonomia di giudizio senza alcun rapporto di subalternità. In alcuni casi è tuttavia documentata la copertura da lui fornita a uomini collegati ai servizi». Gli incidenti del ’53 sembrano essere il momento culminante di tutte le tensioni e le contraddizioni accumulate nei rapporti tra Roma e la Trieste del Gma: gli incidenti furono fomentati da Roma? «Numerosi elementi di prova convergono in questa direzione, e sono emersi via via che il trascorrere del tempo ci allontanava dalla “guerra fredda” e dalla cosiddetta “prima repubblica”: dalle risultanze dell’inchiesta del giudice Mastelloni di Venezia dei primi anni Novanta (su cui riferisce nel suo libro Silvio Maranzana), alle memorie autoassolutorie di Paolo Emilio Taviani, all’epoca ministro della Difesa, alle dichiarazioni dello stesso De Castro, fino ai segnali non equivocabili che si rinvengono nei documenti conservati al Ministero degli Esteri». Nel libro lei sostiene la tesi per cui almeno due delle vittime di quegli scontri caddero sotto il fuoco non della polizia ma di agenti italiani provocatori. «Nel libro sostengo che, nella ricostruzione delle giornate del novembre 1953, accanto a numerosi fatti certi e provati, sussistono ancora oggi margini di ambiguità e di oscurità, che derivano soprattutto dalla impossibilità di reperire o di accedere a fonti documentarie che potrebbero aiutare a fare ulteriore chiarezza. Ma, collegando insieme tutto ciò che sappiamo e ciò che non sappiamo, non è improbabile che possa essersi verificato uno scenario di quel genere. Del resto, tali erano le incongruenze nella versione sostenuta dalla parte più radicale dello schieramento filo-italiano a Trieste e anche nella versione ufficiale adottata da Roma che una parte almeno dell’opinione pubblica giuliana fin da subito non fu disponibile a crederci, e questo fatto lo segnalò prontamente anche il Sifar, in un’informativa di poco successiva ai fatti». |
Pietro Spirito
“Il Piccolo” 23.08.2011