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Slovenia: Janša avanti tutta (balcanicaucaso.org 24dic12)

Stretto tra le proteste di piazza e le pressioni dei mercati, il governo di Janez Janša supera il tentativo dell’opposizione di sfiduciare il ministro dell’Interno, vara la riforma previdenziale, la legge che istituisce la “Bad bank” e quella sulla creazione di una holding per gestire le aziende statali. Il tutto grazie alla decisione della Corte costituzionale che boccia le iniziative referendarie su queste due leggi. Cala lo spread sloveno, sale il malumore dei manifestanti

 

È stata una settimana superlativa per il governo Janša, sicuramente la migliore di questo mandato. D’un sol colpo sono stati cancellati tre referendum su tre leggi considerate fondamentali per far fronte alla crisi economica, il ministro dell’Interno Vinko Gorenak ha superato indenne la mozione di sfiducia promossa dall’opposizione e dal palazzo presidenziale è uscito il tanto detestato (dal centrodestra) Danilo Türk, per lasciare lo scranno al molto più accondiscendente Borut Pahor.

 

Ma andiamo con ordine. Martedì era in programma la mozione di sfiducia nei confronti del baldanzoso ministro dell’Interno Vinko Gorenak. L’opposizione voleva la sua testa per una brutta e oscura vicenda, quella dello smarrimento di una serie i formulari pieni di firme, raccolte dai sindacati per promuovere il referendum sulla “Bad bank”.

 

Il ministero dell’Interno aveva rilevato che i promotori non avevano raccolto il numero di sottoscrizioni necessarie e furbescamente lo aveva comunicato solo alla vigilia della scadenza dei termini, impedendo, di fatto, ai promotori di correre ai ripari. Alla fine, però, si è scoperto che le firme c’erano, ma si erano misteriosamente smarrite tra la Camera di stato, che le aveva prese in consegna, e il ministero degli Interni, a cui era stato inviata la fotocopia di tutto l’incartamento per la verifica formale.

 

L’opposizione ed i sindacati hanno subito tirato in ballo oscure trame ordite dalla maggioranza per impedire i referendum, mentre sia il presidente del Parlamento, Gregor Virant, sia il ministro dell’Interno Vinko Gorenak hanno tentato di negare gli eventuali complotti, scaricando le responsabilità sul personale tecnico.

 

Nessuno dei due comunque ha dimostrato la ben che minima intenzione di abbandonare la poltrona e di prendersi la responsabilità politica per il pasticcio. A questo punto Slovenia positiva, il maggiore partito d’opposizione, ha deciso di puntare il dito sull’inviso Gorenak. Il ministro era un bersaglio logico. È considerato uno dei collaboratori più fidati del premier Janez Janša, è mai troppo diplomatico nelle sue dichiarazioni. Slovenia positiva lo vede come un potenziale pericolo per l’indipendenza di polizia e magistratura e lo ritiene il mandante delle indagini della polizia sull’autenticità delle firme dei trenta deputati, perlopiù del partito di Janković, che avevano chiesto il referendum sulla legge che istituisce una holding chiamata a gestire le aziende a partecipazione statale.

 

Gli inquirenti hanno persino fatto una perizia calligrafica della firma di una deputata in congedo maternità e poi sono addirittura arrivati in parlamento, nel bel mezzo di una seduta della Camera, per sentire i deputati, la cui veridicità della firma era messa in dubbio.

 

Alla vigilia del voto le sorti di Gorenak parevano incerte. Era un buon test per una maggioranza che non sembrava per nulla compattata intorno al suo ministro. Alla fine, però, i timori si sono rilevati del tutto infondati e Gorenak ha intascato un ampia fiducia. Un buon segnale per la maggioranza, alle prese con una pesante situazione interna, stretta tra le proteste di piazza e le pressioni dei mercati internazionali.

 

Lubiana era oramai diventata, agli occhi dei partner internazionali, una inguaribile bugiarda. Erano anni che i governi andavano promettendo pacchetti di impopolari riforme ed erano anni che tutte venivano bocciate dai referendum. A promuoverli, in alternanza, vari gruppi di pressione, i sindacati e l’opposizione, che sino allo scorso anno era guidata dall’arcigno Janez Janša. Ora anche dopo il voto anticipato lo scenario non sembrava voler cambiare. La Slovenia appariva, oramai, come un paese che, con i conti relativamente a posto, stava andando in crisi a causa dell’inadeguatezza della sua classe politica, incapace di rispettare gli impegni e di prendere qualsivoglia decisione, affaccendata solamente a fronteggiarsi in una guerra senza quartiere senza badare alle conseguenze.

 

Janša, con piglio decisionista, ma anche con maggiori capacità di convincimento, in questo primo anno di mandato è riuscito almeno a varare la riforma previdenziale e a farla approvare alla camera all’unanimità. Meno consensi, invece, hanno riscosso due provvedimenti considerati, dal suo governo, indispensabili: la legge che istituisce la Bad bank – e che dovrebbe servire a risanare il malandato settore delle banche a partecipazione statale – e quella che crea una holding chiamata a gestire le aziende a partecipazione statale. Per l’opposizione queste misure non servono ad altro che svendere i gioielli di famiglia.

 

Su entrambe le leggi era stato promosso un referendum e il governo aveva chiesto alla Corte costituzionale di valutarne l’ammissibilità. La legislazione referendaria in Slovenia è molto permissiva e i giudici sinora erano stati di manica molto larga. Nello scorso mandato avevano permesso persino di votare sulla riforma previdenziale e sul codice di famiglia che concedeva maggiori diritti alle coppie omosessuali. Il giudizio dei magistrati quindi sembrava scontato.

 

Questa volta però le iniziative referendarie sono state bocciate, con una sentenza che non ha uguali nella storia della Corte costituzionale e che va letta più in chiave politica che giuridica. Senza entrare nel merito delle leggi la corte ha sentenziato che le consultazioni popolari avrebbero messo a rischio le riforme e quindi anche la sicurezza sociale, il lavoro e la stabilità economica. La corte in pratica ha voluto tagliare quello che sembrava un vero e proprio nodo gordiano, mettendo fine all’allegra stagione dei referendum.

 

Forse sui giudici ha influito anche l’ennesima iniziativa estemporanea dei sindacati che volevano promuovere addirittura un voto popolare sulla legge di attuazione del bilancio. Motivo del contendere la diminuzione del 5% delle spese per gli stipendi dei dipendenti pubblici. Il provvedimento, secondo l’esecutivo, comunque, non avrebbe portato automaticamente ad un abbassamento degli stipendi. L’iter referendario avrebbe, però, bloccato il paese per alcuni mesi e lo avrebbe costretto ad operare in regime di esercizio provvisorio, creando non pochi scompensi.

 

La sentenza della Corte costituzionale, e forse ancor più l’annuncio di uno slittamento di sei giorni nell’erogazione degli stipendi nel pubblico impiego, hanno fatto immediatamente recedere i sindacati dai loro propositi, che si sono affrettati a ritirare l’iniziativa referendaria. I primi effetti si sono subito fatti sentire con una significativa riduzione dello spread delle obbligazioni slovene.

 

L’ennesima lieta novella per il governo Janša arriva dall’insediamento alla presidenza della Repubblica di Borut Pahor. L’ex premier, che nel corso del suo mandato si era dimostrato tutt’altro che abile nell’imbastire il dialogo tra le forze politiche e con i partner sociali, sin dal momento del giuramento ha puntato sull’intesa tra tutti per uscire dalla crisi e Janša si è subito affrettato a salutare il proposito e a raccogliere l’invito.

 

Il partito del premier, forse inebriato dai grandi successi ottenuti nell’ultima settimana, non ha potuto evitare di trovarsi al centro di nuove polemiche a causa di una serie di duri commenti lanciati su Twitter, all’indirizzo di alcuni dei partecipanti alle manifestazioni di protesta di venerdì scorso. A Lubiana, infatti, nuovamente migliaia di persone sono scese in piazza per esprimere il proprio dissenso nei confronti della classe politica.

 

Una protesta che si è ripetuta, in tono minore, sabato, con la partecipazione di centinaia di operatori del mondo della cultura che hanno inscenato una contro celebrazione della Giornata dell’indipendenza, mettendo in piedi un corteo in maschera. La polizia è stata, così, costretta a blindare Piazza della Repubblica, per far confluire i politici che dalla cerimonia di giuramento del nuovo presidente della repubblica alla Camera dovevano arrivare alla Casa di cultura Cankar. Per loro bordate di fischi. Il nuovo presidente, Borut Pahor, attorniato da uomini della scorta, non ha mancato di avvicinarsi ai manifestanti, che, però, non lo hanno accolto a braccia aperte, anzi alcuni gli hanno addirittura voltato le spalle per esprimere il proprio disappunto.

 

Stefano Lusa

www.balcanicaucaso.org 24 dicembre 2012

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