«Siamo piccoli, ma di qualità!». Così esultò Lilliput dopo lo strappo con la Jugoslavia. Oggi, che ha coronato il sogno di entrare nell’euro, la mini-repubblica subalpina scopre che essere piccoli costa, si accorge che due milioni di abitanti sono un quartiere di Pechino,e quei due milioni sono pochi per mantenere uno stuolo di ambasciatorie promotori d’affari nel mondo. Anche la qualità vacilla: i pilastri dell’istruzione e della sanità mostrano la corda dopo anni di standard altissimi. Il Paese perde colpi, e ora non può più dare la colpa a Tito e alla vecchia federazione. Da quando è in Europa, Lubiana è sola davanti a se stessa.
Ventidue anni fa la secessione venne gestita a meraviglia, con un accordo sottobanco con Belgrado che scongiurò ecatombi bosniache e consentì una guerricciola più mediatica che reale. Ma il distacco di Lubiana fu soprattutto una scaltra operazione bancaria: col mito della “Svizzera dei Balcani”, alla vigilia del disastro, la Slovenia aveva monetizzato la crescente insicurezza della Jugoslavia attirando risparmi dalle altre repubbliche- Serbia, Croazia eccetera – per poi chiudere i propri caveau nei giorni caldi dell’indipendenza. Il paradosso è che oggi quelle stesse banche sono l’epicentro della crisi.
Va detto subito che il Paese resta ordinato e ogni paragone con Cipro è fuori luogo. Il paesaggio è ancor quello agreste della vecchia Austria asburgica, il turismo è di qualità, le scuole funzionano bene, quasi tutti parlano un buon inglese e gli asili sono aperti tutto l’anno dalle cinque e mezza del mattino. La burocrazia consente l’apertura di una partita Iva in poche ore, gli ospedali sono ottimi e le poste funzionano talmente bene che a Trieste e Gorizia c’è chi va a imbucare oltre frontiera le lettere per il resto d’Italia, con la certezza di un recapito più veloce. Persino nell’uso dei fondi europei la Slovenia sembra muoversi meglio del suo vicino sull’Isonzo.
Ma dopo il 2007, anno dell’entrata in Schengen, un’arietta liberista priva di regole sembra aver contagiato il Paese. Si ruba con molta più disinvoltura e chi denuncia tangenti, evasione o lavoro nero viene dichiarato “comunista” con leggerezza berlusconiana, a partire dall’ex premier Jansa (peraltro cacciato a furor di popolo). L’anima agricola, mercantile e sparagnina degli Sloveni si è fatta così più sprecona, portando il Paese a vivere al di sopra delle sue possibilità.
Macchine di lusso, doppie case, mutui “allegri”, euforia nell’acquisto dell’effimero. È una crisi di identità, prima che economica.
I giornali si chiedono cosa sia diventato il Paese, passano dal pessimismo nero all’appello patriottico per la rinascita, temono che la stessa Unione Europea diventi prigione di popoli come la federazione jugoslava. Si invoca la libertà di mercato ma contemporaneamente si celebrano i valori del welfare socialista. Si santifica l’indipendenza da Belgrado e si lamenta che con la vecchia “Jugo” si stava forse meglio, perché tutti si sentivano più garantiti. E il tutto si trasforma in una guerra tra “bianchi” e “rossi” – cattolici e socialisti – secondo schemi antiquati che non aiutano a risolvere il problema. E così, mentre da Maribor a Lubiana pattuglie di “indignados” di ogni colore politico gridano “al ladro”, la maggioranza silenziosa tace, esattamente come in Italia, per coprire i suoi privati spazi di illegalità: lavoro nero, contributi non pagati, favoritismi, cubature edilizie non dichiarate. Un censimento aggiornato degli immobili non esiste, e la maggioranza degli sloveni teme che l’introduzione di una tassa simile all’Imu – probabilmente necessaria per fronteggiare la crisi – possa portare in luce questa comoda fetta di sommerso.
Ma il peggio è la fuga dei giovani qualificati e la scarsità dei capitali stranieri. Nonostante il lavoro costi meno che in Italia, le grosse aziende non cercano più la Slovenia per un intollerabile eccesso di vincoli sindacali, ereditati questi dalla Jugoslavia. Sono questi i nodi che il governo di Lubiana dovrà affrontare con urgenza sotto l’occhio severo di Berlino e di Bruxelles. D’altra parte perché affrettarsi, pensano in tanti. Quasi tutti, qui, hanno il loro pezzo ben curato di campagna, e si arrangiano per campare.
Uova, frutta, patate, miele sono spalmate su tutto il territorio e generano una forte economia parallela. Gran parte della popolazione impiegatizia smette di lavorare già il primo pomeriggio del venerdì e si mette in coda per disperdersi in un finimondo di linde casette rurali, dalle falde del Tricorno fino ai confini della Croazia e dell’Ungheria. Ecco dunque la fotografia di un Paese ingessato, che teme di aprirsi e rinvia all’infinito la soluzione dei problemi. Lilliput, insomma, non ha ancora deciso cosa vuol fare da grande.
Paolo Rumiz
“la Repubblica” 15 maggio 2013