Commemorato in Slovenia il settantesimo anniversario della costituzione delle unità collaborazioniste dei Domobranci. La cerimonia si è svolta la scorsa settimana a Rovte, vicino a Lubiana, ed ha visto come ospite d’onore nientemeno che il leader del centrodestra Janez Janša
Le polemiche sono scoppiate sin dall’annuncio della celebrazione. È la prima volta, infatti, che un personaggio politico di primo piano partecipa a simili iniziative.
A contestare la manifestazione, sulla strada che portava al paese, non è mancata una contromanifestazione, davanti ad un monumento dedicato ai caduti della resistenza, dove i partecipanti hanno esibito i tipici berretti partigiani e le solite bandiere con le stelle rosse.
Ad aggiungere benzina sul fuoco, anche il fatto che, a dir messa, era stato chiamato il vicario militare Jože Plut. L’ufficiale, all’ultimo momento, s’è tirato indietro, ma al suo posto si è presentato un altro cappellano militare, che ha presenziato alla cerimonia in uniforme dell’esercito.
La Slovenia non è nuova a simili manifestazioni, lo scorso anno a Šentjošt venne celebrato il settantesimo anniversario della costituzione delle scolte contadine, che le forze occupanti italiane inquadrarono, poi, nell’ambito della Milizia volontaria anticomunista. Da quelle unità nacquero successivamente i Domobranci. Nella cerimonia, organizzata quest’anno a Šentjošt, per la prima volta, è comparso un picchetto d’onore che ha rispolverato addirittura le vecchie uniformi dei Domobranci e la bandiera di quelle unità.
La tesi propugnata è che all’epoca si scontrarono sul campo due eserciti sloveni: il primo, quello filosovietico vinse la battaglia nel 1945 e annientò brutalmente i suoi nemici; il secondo, che voleva una Slovenia democratica, vinse la guerra nel 1990, dopo le prime elezioni libere.
Da una parte, così, ci sarebbero i valori della Slovenia indipendente e democratica dall’altra quelli della barbarie comunista. In Slovenia, come nei paesi Baltici, quindi, la lotta anticomunista avrebbe in qualche modo giustificato un’alleanza strategica con gli occupanti.
Una tesi inaccettabile questa per il centrosinistra, secondo cui era evidente chi stava dalla parte della ragione e chi dalla parte del torto, chi lottava per la libertà e chi invece consegnava gli oppositori ai nazisti e sorvegliava i treni che portavano i prigionieri nei campi di sterminio.
Il tutto si colloca in una serrata discussione sulla Seconda guerra mondiale. Gli studiosi dei movimenti collaborazionisti sottolineano, che questo fenomeno riguarda soprattutto la Slovenia centrale e la Bassa Carniola e coinvolge meno le altre regioni del paese. Il fenomeno, spiegano, nacque dalle errate valutazioni della Chiesa cattolica e di maggiorenti del Partito popolare, che credevano inevitabile la vittoria nazista e che perciò cercarono di trovare un modus vivendi con i nuovi padroni. La formazione di unità collaborazioniste viene letta, però, anche come una risposta all’ardore rivoluzionario che i partigiani, nel 1942, misero in atto nelle zone da loro liberate.
In questo contesto viene posto l’accento sulla specificità del collaborazionismo sloveno, che pur giurando fedeltà alla Germania nazista ed appiattendosi, forse senza eccessivo entusiasmo, all’ideologia del Terzo Reich, mantenne una dimensione locale e fortemente legata ai valori nazionali; tanto che riorganizzò la scuola slovena anche nelle zone a forte presenza slovena del regno d’Italia occupato dai nazisti.
Ciò non mise a riparo i collaborazionisti da una atroce resa dei conti. A guerra finita le truppe jugoslave li passarono per le armi senza processo. La stessa sorte toccò a quelli che si erano rifugiati in Austria, per arrendersi agli Alleati. Gli inglesi li riconsegnarono alle truppe di Tito che li giustiziarono nella suggestiva e inquietante Selva di Kočevje.
All’epoca tutta la Slovenia venne riempita di fosse comuni. Il regime eliminò quei nemici senza preoccuparsi di riconsegnare i corpi alle famiglie. Su quella strage cadde il silenzio. Tornò alla luce negli anni Settanta, grazie allo scrittore Edvard Kocbek, che ne parlò per la prima volta in pubblico e poi fu uno dei temi ricorrenti negli anni Ottanta, al tempo della democratizzazione della società in Slovenia.
Agli inizi degli anni Novanta andò in scena anche quella che doveva essere una cerimonia che segnava la riconciliazione, a cui partecipò anche il capo dello Stato Milan Kučan, che prima di ricoprire quel prestigioso incarico era stato per lunghi anni un funzionario di spicco e poi anche leader dei comunisti sloveni. A quel punto sembrò assolutamente lecito che ognuno commemorasse e celebrasse i propri morti.
La questione, però, non era risolta. Il problema era che mancavano le tombe, per chiudere una tragedia, che aveva sin troppi richiami con quella di Antigone. Si trattava di dare degna sepoltura a tutti. La spinosa questione non sembra essere stata mai affrontata con la seria volontà di chiuderla definitivamente. Si è fatto ben poco, infatti, per trovare una soluzione per le oltre 600 fosse comuni che sono disseminate in tutto il paese.
Attualmente ne sono state monitorate circa una quarantina. La più celebre è quella di Huda jama, dove, in una miniera dismessa della Slovenia centro orientale, sono stati trovati i corpi di centinaia di persone. Ad anni di distanza i tutti resti non sono stati ancora del tutto riesumati. Le ossa estratte, in attesa che si decida sul da farsi, per ora giacciono in misere cassette di plastica, più adatte al trasporto della frutta al mercato che a conservare ossa umane. Ufficialmente: mancano i soldi.
Ad ogni modo la Slovenia sembra, oramai, essere sempre più prigioniera del suo passato. Ad accendere la polemica è stato il mancato invito, nel giugno del 2012, dei vessilli con le stelle rosse, alla cerimonia che celebrava l’indipendenza del paese. A quello che fu considerato un inaudito affronto si è risposto ostentando, in ogni occasione possibile in faccia all’allora capo del governo, Janez Janša, i simboli partigiani e comunisti.
Lo scorso 27 aprile, per celebrare la giornata della resistenza, i leader del centrosinistra hanno presenziato ad un concertone di canti partigiani e rivoluzionari, che si è concluso con tutti i vertici dello stato in piedi sulle note dell’Internazionale. La premier Alenka Bratušek è stata persino beccata dalle telecamere mentre, seduta in prima file, cantava con un certo vigore Bandiera rossa.
Adesso alle stelle rosse si contrappongono i simboli dei Domobranci e alla partecipazione ai raduni partigiani degli esponenti del centrosinistra si risponde con la presenza alle celebrazioni delle unità dei collaborazionisti. La guerra culturale continua.
Stefano Lusa
www.balcanicaucaso.org 30 agosto 2013