La frontiera divideva orti e cimiteri. Ora Lubiana offre benzina e dentisti scontati
Nel 2007, con l’estensione alla Slovenia della libera circolazione, le barriere sono sparite. E si sono moltiplicati gli ingressi dei clandestini
di Andrea Galli
«Ho riunificato i miei vigneti»
Robert Princic, 34 anni. Enologo, lavora nell’azienda vinicola di famiglia. Bilingue («Ho voluto imparare lo sloveno, lo considero un grande arricchimento»), i suoi vigneti sono collocati in parte nel territorio italiano, in parte in quello sloveno. «Mio nonno— racconta— aveva metà del vigneto oltre confine. Era faticoso e difficile superare la dogana. Così è stato abbandonato». Nel 2007, Robert ha «riunito» i vigneti e ha fatto risorgere quello dell’ex Jugoslavia. Princic lavora a stretto contatto con imprenditori sloveni suoi coetanei . «Hanno un altro passo— dice — perché la burocrazia non li frena».
Ha detto Celso Macor, uomo di cultura del posto, che la linea «trapassava la carne». La linea tagliava perfino cimiteri, quello di Merna è in ristrutturazione, hanno demolito le garitte, lo stanno ampliando, e non sanno spiegare, operai e muratori, dove per esempio riposassero, in Italia o Slovenia, Milos Ferletic (1923-1980), Karmela Rusjan (1907-1994), Marija Bobic (1884-1970), e se i parenti, per le visite e le preghiere, abbiano dovuto subire ulteriore strazio e pena. Nel dicembre 2007, con l’estensione alla Slovenia della libera circolazione delle persone, la linea è stata abbattuta, finalmente calpestata, fatta scomparire ma forse non cancellata, non ancora. Il pensionato Alex Marc, 66 anni, mamma slovena e papà francese discendente di un soldato di Napoleone, dice di «aver pazienza, gli uni dovranno convivere con gli altri», però, aggiunge Marc, «bisogna star tranquilli. Siamo abituati a darci una mano». Quante sfide alle guardie, i graniciari. «Si nascondeva il caffè nei tubi delle bici», ricorda Alex, che cammina lungo la pista ciclabile sorta sul confine, «per portarlo ai parenti in Slovenia, non avevano nulla».
Tanti, oggi, hanno di più. I casinò, le ballerine mezze nude cinesi e russe, e i dentisti meno cari, e la benzina più conveniente, e le cliniche veterinarie aperte 24 ore su 24, e — perché no? — il confine con nazioni, come la Croazia, che non appartengono all’Unione Europea e sono dunque confini strategici e redditizi anche per la criminalità. Contrabbando, armi e droga, merce contraffatta, denaro sporco, clandestini, clandestini, clandestini. «Un giorno», dice Mara, «nel pollaio trovammo una trentina di cinesi, li avevano portati, chissà come, da oltre confine, abbandonandoli». Si salvarono. Rifocillati, proseguirono la marcia. Ai fratelli Zoff, che abitano sempre a Gorizia, sul confine — reclamano, inascoltati, un pezzo di prato trasformato dagli sloveni in rotonda spartitraffico — andò peggio. La notte sentivano raffiche di spari e al mattino trovavano la terra smossa. Sono convinti che ci seppellissero i fuggiaschi scoperti e ammazzati. Non hanno avuto il coraggio, mai, di scavare, di indagare.
Da queste parti meglio non indagare, ti dicono, meglio non scavare: la storia si porta dietro troppe ideologie, troppe ferite, troppi rancori, tradimenti, vendette, dolorosi silenzi, tragiche sopportazioni. La Gorizia degli Asburgo. La Prima guerra mondiale e i monti del massacro, Sabotino, Calvario, San Gabriele. La fascistizzazione di toponimi e cognomi. Le spie. La seconda guerra. I partigiani di Tito. Le foibe. Altre spie. La cortina di ferro. «Per Gorizia— ha detto l’intellettuale Sergio Tavano — nutro un amore drammatico. Gorizia ci dà questo tormento. Ma il suo piccolo orizzonte consola e lì ci si rifugia». E se si fosse ristretto, ulteriormente rimpicciolito? «È una città di impiegati, preti, e pensionati» dice Roberto Covaz, scrittore-giornalista amante di Gorizia nonostante sia figlio della nemica Monfalcone. «Caduto il confine — ricorda Covaz— chiusero bar, tabacchi, imprese edili, botteghe di artigiani. A Gorizia e dintorni c’erano 12 mila soldati, che alimentavano l’economia. D’un colpo, se ne andarono. Grazie alla cortina di ferro, in molti si sono arricchiti. Vede, in certi goriziani il confine sopravvive: è un confine mentale».
Rimasero le caserme. Dimenticate. Non riconvertite. Prendete quella di Giasbana, a nord, nell’ordinato e piovoso Collio, il Collio del vino. La caserma di Giasbana è un edificio a tre piani, saccheggiato dai ratti. Dev’essere una caratteristica del posto, l’abbandono: attorno e dentro un altro antico sito militare, una ex polveriera, è cresciuto un bosco; da una torre di avvistamento sbuca una pianta, forse un gelso. Dalla torre, gli italiani sorvegliavano gli jugoslavi. Non era facile scorgere il confine. Si perde nelle vigne. Robert Princic, 34 anni, bilingue («Conoscere lo sloveno mi arricchisce»), enologo, lavora nell’azienda vinicola di famiglia. Il nonno aveva un vigneto per metà in parte slovena; arrivarci era complicato, il vigneto fu abbandonato. Robert, ragazzone con una stretta di mano che rischia di provocare slogature, dal 2007 l’ha preso e fatto rinascere. Non ha dovuto penare. «Vedo i giovani imprenditori sloveni: non sono frenati dalla burocrazia, sono aiutati dallo Stato. Noi, da Roma, siamo lontanissimi. Siamo periferia estrema».
John R. Schindler, consiglia un libraio timido e burbero, è lo studioso che meglio ha raccontato il fronte dell’Isonzo della Grande Guerra. Il bel libro, Isonzo, edito dalla Leg, è nato da chilometri di marcia e ore di interviste, con fare da cronista, da presa diretta. Scusi, cosa c’è di strano? «Non è automatico che uno venga in questi posti e si fermi» dice il librario. A meno che non sia in fuga; lo erano i profughi che irrompevano a Topolò, freddo e calda ospitalità più a nord, sulla cartina, rispetto al Collio. Topolò, 29 abitanti (il trentesimo èmorto qualche giorno fa, un anziano fumatore di Ms, «distruggevo i pacchetti, lui insisteva» piange la badante, italiana), Topolò, dicevamo, è sul confine. Quando, negli anni Novanta andò in frantumi la Jugoslavia, «ci invasero» dice il signor Alfonso, 83 anni e uno dei 29 nel paesino a 600 metri d’altezza. Vittime della pulizia etnica, in tanti vennero espulsi e privati, con modifiche ai computer e documenti cancellati, della residenza. A Topolò le case vuote, quelle dei concittadini emigrati, abbondavano; una divenne «l’ambasciata dei cancellati», il ricovero per i forestieri, i disperati, c’è una targa, ben tenuta, sulla porta.
Era vicino, il valico, Alfonso? «Il confine passava dietro quelle case, la frazione di Trusgne, io di cognome faccio Trusjach, le località e le persone qui sono simili, sono abituate a stare insieme, non importa se i nomi sono italiani o sloveni. Tornando al confine, guardi quel monte: è già Slovenia. Ma se devo essere sincero, eravamo noi a essere confinati. La strada, il collegamento con l’Italia, l’hanno costruita nel ’51». Arrivato in ritardo, il governo non perse tempo. Salirono subito i bus. Prese posto anche il signor Trusjach. «Portavano alle miniere, in Belgio. Il Belgio più minatori riceveva e più carbone dava all’Italia. Ci caricavano tutti. Era una deportazione».