Soldati che parlavano la stessa lingua del nemico. Questo divennero gli oltre 100.000 sudditi austro-ungarici di lingua italiana, originari di Trentino e Litorale austriaco, arruolati nell’esercito dell’Impero nel corso della prima guerra mondiale. Gli italofoni trentini, giuliani, friulani, istriani e dalmati furono mandati a combattere su diversi fronti, ma in primo luogo contro i russi in Galizia, nella regione più orientale dell’Austria. Per loro la guerra cominciò già nel luglio 1914, quasi un anno prima dell’intervento del Regno d’Italia, che portò le istituzioni militari austriache a ritenerli ancora meno affidabili di quanto già non fossero considerati.
In migliaia, forse in 30.000 o più, finirono prigionieri in Russia, dove vissero le esperienze più diverse e da dove tornarono seguendo gli itinerari più disparati. La maggior parte rientrò via terra dopo l’uscita della Russia dal conflitto, la firma della pace di Brest-Litovsk e i conseguenti accordi per lo scambio dei prigionieri con l’Austria. Ma una parte considerevole ebbe destini assai differenti. Già nel corso della guerra circa 4.000 di questi prigionieri italofoni vennero intercettati da un’apposita missione militare italiana che, dopo averli selezionati e parzialmente “rieducati”, li imbarcò su tre piroscafi ad Archangel’sk, sul Mar Bianco, facendoli giungere su suolo italiano tra l’ottobre e il novembre 1916. Circa 2.600 uomini, riuniti dalla missione militare italiana che ne stava organizzando il trasbordo in Italia, furono sorpresi dalla rivoluzione bolscevica e trasferiti con un viaggio avventuroso attraverso la Russia nellaconcessione militare italiana di Tientsin, non distante da Pechino. Una parte di questi, i più anziani e i malati, rientrarono facendo letteralmente il giro del mondo, con due viaggi in nave che tra aprile e giugno 1918 li condussero a San Francisco, cui seguì l’attraversamento degli Stati Uniti e poi finalmente l’imbarco sulla costa occidentale verso l’Europa. Altri furono invece aggregati al Corpo di spedizione italiano in Estremo oriente, inviato in Siberia a combattere contro i bolscevichi. Questi ultimi, insieme ad altre centinaia di italiani d’Austria rastrellati da una nuova missione italiana in vari campi di prigionia sparsi negli immensi spazi russi, rientrarono soltanto nei primi mesi del 1920, dopo un lungo viaggio attraverso l’Oceano Indiano e lo stretto di Suez. Altri ancora, in gruppi o alla spicciolata, avrebbero trovato la via del ritorno nei mesi e negli anni successivi, alcuni addirittura nel corso degli anni Trenta.
Al di là dei trascorsi avventurosi, quasi fantastici, vissuti in lunghi anni di guerra, prigionia e complicati ritorni, i soldati di lingua italiana dell’esercito austro-ungarico rappresentano un tema storiograficamente interessante. Le loro vicende ci rimandano in primo luogo alla complessa questione nazionale nella Duplice monarchia, ai rapporti sempre più conflittuali tra le diverse comunità linguistiche, specie a partire dalla fine dell’Ottocento. Tali dinamiche s’innestarono nella Prima guerra mondiale, che, come un catalizzatore, le accelerò drammaticamente. Indagare le vicende dei soldati appartenenti a una delle più piccole minoranze nazionali dell’Impero durante la guerra ci invita a ragionare sul modo in cui vennero percepiti e trattati dalle autorità militari e civili austriache e sui motivi della costante diffidenza nei loro confronti, anche prima dell’ingresso in guerra dell’Italia. Ci spinge anche a interrogarci sui sentimenti con cui partirono per il fronte, sulle loro identità culturali, nazionali, regionali e sui modi in cui queste vennero messe in discussione, modificate o ribadite a seguito dell’esperienza di guerra, sui motivi che determinarono, laddove vi fu modo di operarla, la scelta per l’Austria o per l’Italia. E proprio l’Italia rappresenta il terzo attore sulla scena. Roma motivò il proprio intervento in guerra con la necessità di liberare le «terre irredente», ma di fronte a questi «irredenti» in carne ed ossa mostrò una sospettosa cautela e un pregiudizio d’inaffidabilità nazionale non troppo diverso da quello sviluppato da parte austriaca.
Frutto di un accurato lavoro di ricerca negli archivi di Vienna e Roma, il recente lavoro di Andrea Di Michele (“Tra due divise”, Laterza, Roma-Bari 2018) ricostruisce il modo in cui le istituzioni militari e politiche austriache e italiane considerarono quei soldati. La documentazione prodotta dalle autorità viene costantemente messa a confronto con la memorialistica dei soldati, evidenziando i punti di frizione tra le pretese delle prime e le aspirazioni dei secondi.
Andrea Di Michele è ricercatore di Storia contemporanea al Centro di competenza Storia regionale della Libera Università di Bolzano. Si occupa di storia delle regioni di confine, di fascismo e di Italia repubblicana. Tra le sue pubblicazioni: “Storia dell’Italia repubblicana 1948-2008” (Garzanti 2008, ristampato nel 2015); “La difesa dell’italianità. L’Ufficio per le zone di confine a Bolzano, Trento e Trieste (1945-1954)” (coedito con Diego D’Amelio e Giorgio Mezzalira, Il Mulino, 2015); “Fu la Spagna! Lo sguardo fascista sulla Guerra civile spagnola” (coedito con Daniela Aronica, IBIS, 2017).