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Trieste ’45: prove generali di guerra fredda (Giornale di Brescia 15 mag)

Il 30 aprile 1945 il Comitato di liberazione nazionale, composto da tutte le forze politiche antifasciste esclusi i comunisti, proclamò l’insurrezione generale a Trieste. Il 2 maggio i tedeschi che occupavano la città dal ’43 si arrendevano ai neozelandesi, ma il giorno prima l’Armata popolare di liberazione jugoslava di Tito era entrata in città per presentarsi come liberatrice davanti agli Alleati. La popolazione italiana viveva nella paura e nelle spire di un terribile dissidio: l’annessione alla Jugoslavia o il ritorno all’Italia. Violenze, arresti sommari si susseguirono; figure eminenti delle comunità italiane scomparvero nelle foibe. Tragedie preparate sia dalla dissennata politica fascista che aveva vietato l’uso pubblico delle lingue slovena e croata e scuole e stampa della comunità slovena, sia dall’invasione nazifascista della Jugoslavia. Il 9 giugno 1945 Tito, constatata l’indisponibilità di Stalin a sostenerlo, si accordò col generale Alexander e Trieste e hinterland passarono al controllo alleato.

Su questa intricata trama di eventi si sviluppa il saggio di Raoul Pupo «Trieste ’45» (Laterza). Trieste vi appare non solo come centro di contrasti poi sfociati nella Guerra fredda, ma come laboratorio privilegiato per le relazioni fra i movimenti di liberazione e per il complicato rapporto fra il Pci e il Partito Comunista jugoslavo. All’autore, docente di Storia contemporanea all’Università di Trieste, autore di fondamentali saggi su esodi chiedo a quanto ammonti il numero degli infoibati.

«Se per infoibati intendiamo gli scomparsi nelle crisi dell’autunno ’43 e della primavera ’45, indipendentemente da come sono stati uccisi, da una parte o dall’altra, sono alcune migliaia».

Che cosa fa della Risiera di San Sabba «una struttura tipica dell’universo concentrazionario nazista»?

La Risiera è un campo di polizia che serviva da centro di smistamento per gli ebrei diretti verso i lager della Germania e della Polonia e in più da campo di eliminazione di massa per prigionieri politici e partigiani. Questi in genere venivano fucilati – furono alcune migliaia di persone – e i loro corpi passati in un forno crematorio che era stato costruito dalla stessa équipe di tecnici che aveva realizzato analoghe strutture nei campi di sterminio della Polonia.

Lei scrive che il fine guerra a Trieste non ha paragoni in Italia e in Europa e che impreciso è il confronto storiografico con l’insurrezione di Varsavia…

A Trieste a fine guerra non c’è un’insurrezione contro i tedeschi ma ce ne sono due, parallele e concorrenziali. La prima è organizzata dal Comitato di Liberazione Nazionale, la seconda da Unità Operaia, l’organizzazione di massa comunista a lingua slovena. Si battono per cacciare i tedeschi, ma ognuna mira a impadronirsi del potere per prima in modo da mostrare a chi dovrà appartenere Trieste. Non combattono l’una contro l’altra, lottano insieme contro i tedeschi; ma il giorno dopo, quando arrivano le truppe regolari jugoslave, queste cominciano ad arrestare i partigiani italiani non comunisti. Un movimento di liberazione si mette a divorare l’altro.

Quali gli sviluppi?

Durante tutto il periodo dell’occupazione jugoslava il movimento di liberazione italiano torna in clandestinità. Alcuni suoi membri sono arrestati, decine di partigiani vengono deportati: non torneranno più. Quando gli jugoslavi si ritireranno e subentrerà l’autorità militare alleata, il Comitato di Liberazione Nazionale diventerà invece l’interlocutore degli anglo-americani.

Passiamo agli aspetti internazionali della questione. Che ruolo giocò a Trieste la politica di Stalin?

Quella di Trieste è la prima crisi internazionale del dopoguerra. È una crisi diretta nei rapporti fra Stati Uniti e Gran Bretagna da una parte e Unione Sovietica dall’altra, perché nell’occupazione di Trieste da parte jugoslava gli Stati Uniti vedono un tentativo sovietico di andare oltre la sfera d’influenza che gli americani consideravano dovuta all’Occidente. E Trieste apparteneva al teatro di operazioni mediterranee. E’ una minaccia che non si traduce ancora in una crisi di guerra fredda per una ragione molto semplice: si avrà guerra fredda quando gli americani si convinceranno che l’Urss non è disponibile a nessun accordo. Nel 1945, invece, Stalin è ancora ritenuto disponibile all’accordo, e infatti il negoziato lo coinvolgerà: sarà proprio Stalin che costringerà gli jugoslavi a sedersi a trattativa.

A Togliatti in procinto di lasciare Mosca per rientrare in Italia nel ’44 è attribuita la frase: «Trieste è nostra e l’abbiamo perduta». Come disegnerebbe l’evoluzione politica del leader del Pci sulla questione?

La frase non è detto che sia di Togliatti, la fonte non è del tutto attendibile. Diciamo che il concetto di base è l’ambiguità. Perché il Partito comunista non può prendere una posizione netta; si trova in situazione critica. Ha da Stalin la consegna di non fare la rivoluzione in Italia, mentre Tito ha il mandato di farla in Jugoslavia. Entrambi seguono gli ordini di Stalin, ma ordini opposti. Dove sta il problema? Che gli jugoslavi vogliono convincere/costringere i comunisti italiani a fare la rivoluzione anche in Italia e presentano la liberazione/occupazione di Trieste come la prima tappa verso tale rivoluzione. Di fronte a ciòTogliatti rimane in posizione ambigua, che terrà fino al 1948. Solo dopo la rottura fra Stalin e Tito, finalmente dirà «Tito no».

Sergio Caroli

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