LETTERE
Veit Heinichen ha criticato i politici e gli amministratori triestini nel suo intervento su «Il Piccolo» del 21 dicembre, sostenendo che «Trieste merita qualcosa di più». Ha concluso auspicando «una lobby forte e unita al di là del colore politico» che possa lottare per gli interessi della città e ha invitato a un dibattito sugli argomenti da lui sollevati. I politici triestini lo hanno «castigato» – giustamente o ingiustamente che sia – presentando due mozioni, una in Comune e una in Provincia, che ne chiedono l'espulsione da qualsiasi sua rappresentanza nell'amministrazione pubblica «che ha criticato».
Ma la risposta ad Heinichen era già venuta su quello stesso numero del giornale dove auspicava «una unione di tutti i politici» e gliel’ha data il gruppo «Cittadini liberi ed uguali di Trieste» che, pur scusandosi con il figlio Gianfranco e con la famiglia Granbassi, ha promosso una raccolta di firme contro l'intitolazione della scalinata (ormai già decisa dal Comune di Trieste) a Mario Granbassi, accusato di essere stato un «giornalista propagandista del regime fascista e volontario combattente di Mussolini nella guerra civile spagnola». È vero. Mario Granbassi è stato un «fascista convinto», come allora erano tutti gli italiani, frutto del suo tempo e di quel clima, che poi, nel '39, settant'anni fa, si è immolato andando a combattere volontario dalla parte dei Franchismi secondo il suo ideale e cadendo nella battaglia di Barcellona. A quel tempo fu insignito della medaglia d'oro alla memoria come spetta a un eroe, mentre oggi, settant'anni dopo, viene contestato perfino il suo ricordo come giornalista! Alla raccolta di firme promossa contro l'omaggio dell'intitolazione a suo nome, ha fatto immediatamente riscontro la raccolta di firme annunciata dal presidente della Lega Nazionale avv. Paolo Sardos Albertini per l'abolizione e la rimozione di «monumenti, targhe, intitolazioni che risultino celebrative dell'occupazione jugoslava di Trieste dal 1° maggio al 12 giugno 1945» e quindi dei crimini commessi dal comunisti titini in quei drammatici quaranta giorni, celebrazioni delle quali tuttora ne esistono diverse e svariate sul Carso.
Ebbene, il lungo incrociarsi delle allucinanti polemiche a cui i triestini hanno dovuto assistere su questo episodio, è stato l'esempio culminante di una Trieste città la più divisa di un Paese a sua volta perennemente diviso, dove due fazioni irriducibilmente contrapposte si fanno un dovere d'impedire la realizzazione di qualsiasi programma che potrebbe fare acquisire un merito alla parte avversaria.
Appare dunque evidente che l'assoluta priorità, la prima riconciliazione, ma anche la più difficile, è cercare di conseguire all'interno delle forze politiche una unità d'intenti che consenta di realizzare finalmente, tutti d'accordo e tutti insieme, quanto possa risultare utile per il bene comune.
Purtroppo, anche il tono e i contenuti dell'intervista rilasciata dal presidente della Croazia Stipe Mesic nei giorni scorsi, non solo non hanno facilitato, ma sono serviti solo a dividere ancor più gli animi e ad allontanare verso un futuro inimmaginabile qualsiasi possibilità di un incontro a Trieste fra i tre capi di Stato italiano, sloveno e croato, tale da segnare la svolta di una definitiva riconciliazioni rispetto alle drammatiche vicende storiche del passato. La situazione è lungi dall'essere matura. E' chiaro, infatti, che per una vera riconciliazione non basterà sicuramente «deporre un fiore» o manifestare un qualunquistico «riconoscimento morale», che nulla sarebbero destinati ad incidere nella storia. Occorrerà, invece, che vengano essenzialmente ottenuti «atti e fatti concreti», quelli che la mancanza di un minimo di dignità della nostra inesistente politica estera verso la Jugoslavia prima e verso la Slovenia e Croazia, suoi eredi, poi, non ha mai saputo perseguire con sufficiente fermezza. Speriamo che di tutto ciò abbia preso attentamente atto il Ministro degli Esteri Frattini, i contenuti della cui intervista sono apparsi a loro volta bisognosi di un buon «ricostituente rafforzativo», in occasione della sua visita diplomatica a Zagabria.
Gianfranco Gambassini