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Trieste e Gorizia oltre il confine (Il Piccolo 08 nov)

di PAOLO POSSAMAI

Un muro è uno strumento di difesa. Un muro implica separazione. Un muro aiuta a occultare. Un muro potrebbe raccontare tanti segreti, ascoltando chi abita da un parte e dall’altra. Ma un muro può contenere anche la propria alterità, la propria negazione: può essere forato da una porta. Ebbene, del muro che percorreva fino a ieri – fino a vent’anni fa – e ha per secoli attraversato il cuore dell'Europa, sia pure in modo discontinuo e cangiante, la città di Trieste è stata porta tra le rare, tra le più sorprendenti per capacità di attrazione.

A vent’anni dalla caduta del Muro per antonomasia, da quando Berlino è ritornata capitale e non più città simbolo sbranata dagli opposti in politica, è bene interrogarsi su quel che è avvenuto in questo tempo e su quel che sta avvenendo nelle città affacciate a quel che fu un vero confine. Che sta avvenendo a Trieste o a Gorizia, per esempio? Se badiamo all'etimologia di ”confine”, che contiene appunto la parola ”fine”, ci sovviene che il mondo occidentale terminava dinanzi agli occhi di chi aveva casa a Gorizia e a Trieste. Il triestino e il goriziano avevano di fronte la frontiera, l’estremo lembo della terra del loro Paese e l'inizio del territorio di un altro Stato. Ma che succede quando la fine non esiste più, quando là dove c'era il confine inizia la possibilità di nuove relazioni, di nuove avventure? Che succede quando cade il muro e si aprono spazi nuovi, chances di incontri, di scambi, di legami? Possono essere colte, queste opportunità, o può sopravvivere il ricordo del muro e – per una sorta di riflesso condizionato – chi abita quei luoghi può muoversi in un ambiente mentale che mantiene i confini e le frontiere. Il rischio esiste tutto, se Trieste in particolare non farà memoria e coscienza del suo ruolo di storica porta con l’Est europeo, con la Balcania soprattutto ma non solo.

Ne è testimonianza il sorprendente impasto di etnie e razze che appaiono semplicemente scorrendo l’elenco del telefono, traccia evidente del ruolo di incrocio commerciale e di magnete culturale esercitato da Trieste. Da questo impasto va tratta la lezione più vera della storia di Trieste, che è una straordinaria capacità di integrazione e assimilazione. L’inverso dell’azione di un muro. Ma esiste pure la possibilità di esaltare le differenze, le contrapposizioni storiche, le colorazioni politiche e di nazionalità d'origine. In questo bivio è contenuto un pezzo essenziale della sfida: aprire o chiudere la porta, rispetto all’”altro” che abita in città, ma non di meno rispetto ai paesi che stanno di là dall'ex confine.

A quest’ultimo proposito, occorre capire per esempio sul pratico terreno delle infrastrutture e degli scambi commerciali come Trieste intende porsi con il suo porto. Porto che fu, per decreto dell'imperatrice Maria Teresa datato 1719, il porto dell’impero. Mutatis mutandis, Trieste potrebbe profittare della caduta del muro e ambire a riscoprire il suo antico ruolo di porto al servizio della mittel-Europa, ma anche a divenire la testata portuale del ”terzo mare” russo (che è la pianura liquida chiamata Adriatico). Del resto, che la caduta del muro abbia implicato formidabili chances di sviluppo lo dimostrano con inequivoca evidenza i dati statistici, secondo cui di gran parte dei Paesi balcanici l’Italia – e in particolare il Nordest – è primo o secondo partner commerciale.

La caduta del muro implica però una potenziale liberazione di energie e creatività dall’una e dall’altra parte della radice del muro. Se Trieste e Gorizia restano immobili, Capodistria investe sul suo futuro. Si candida a rivestire nei fatti il ruolo che Trieste ebbe per decreto imperiale nel 1719. E lo fa sul serio, concretamente, con il cemento armato e con l’intelligenza delle reti di relazioni commerciali coltivate su scala globale. Ma cosa ha pensato la leadership politica e economica triestina e friulana davanti alle gigantesche gru a cavaliere allestite settimane fa in Porto Vecchio? Quelle gru sono state già consegnate al porto di Capodistria e per dileggio della storia stavano dinanzi ai nostri occhi, a dichiarare che un polo portuale a due passi da noi sta costruendo il proprio futuro davvero: con un piano di investimenti da 3,5 miliardi di euro. Competion is competion.

Dalla crisi non usciremo tutti uguali, ci saranno Paesi che usciranno con una velocità di marcia spedita e altri con più sofferta lentezza. Alcuni perderanno pezzi per strada. Trieste dovrebbe forse interrogarsi con maggiore profondità sul rischio di perdere per strada pezzi fondamentali della sua storia, della sua cultura, della sua economia che si chiamano Generali e Allianz (ovvero Lloyd Adriatico e Ras fuse assieme). Non è affatto scontato che l’una e l’altra possano mantenere qui la loro base operativa, e lo hanno detto a chiare lettere i loro top managers, se la città non sarà competitiva: che vuol dire in primis raggiungibile per aereo, treno, autostrada. Pare di invocare categorie dell’ovvio, purtroppo non è così dato che ci contentiamo da mesi o da anni delle promesse del ministro di turno per il ripristino del volo Trieste-Linate, ma nel frattempo a Roma le Fs tagliano tutti i treni non locali in transito sui binari friul-giuliani. Niente treni diretti per Milano, Roma, Vienna. Ma chi può fare impresa in queste condizioni? E quante consapevolezza ve n’è nella classe dirigente friul-giuliana?

In queste dinamiche, Trieste è chiamata a giocare un pezzo fondamentale del proprio destino a venire, imprigionato negli ultimi 70 anni nella dimensione della nostalgia. Nostalgia che può essere letta con la valenza dei due termini presenti nel vocabolario tedesco: nostalgia di un bene perduto, nostalgia di un'esperienza sempre agognata e mai raggiunta. Tra una realtà passata e un desiderio mai tramutato in fatto. Ma il muro è caduto, la ”fine” della terra è stata cancellata e nuove avventure chiamano chi voglia uscire dalla propria casa.

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