Vengono esposte finalmente le masserizie delle famiglie che dalla fine della Seconda guerra mondiale al ’55 fuggirono dalla pulizia etnica e dal regime di Tito. Da Fiume, Pola e Zara ai borghi dell’entroterra istriano
DA TRIESTE GIANPAOLO SARTI
Soffia forte la bora sui capannoni abbandonati del Porto Vecchio. S’incunea nei viottoli, sbatte le finestre, ulula tra gli spifferi delle porte dei magazzini. Il numero 18 è uno dei tanti. Basta qualche giro di chiave per ritornare indietro di sessant’anni e perdersi in un labirinto di stanze avvolte nella penombra. La luce che filtra da fuori distingue le sagome di migliaia di mobili. Pile di libri, pentole, foto, lettere. E un’infinità di attrezzi da lavoro arrugginiti.
Le sedie accatastate in fondo disegnano un enorme scheletro, avviluppato nelle ragnatele. Tra gli armadi impolverati si scorgono delle etichette ingiallite e i nomi si leggono ancora: Zaro, Mohoraz, Benussi, Macovec; cognomi diffusi in Istria. Qui tutto sembra parlare, come se una voce si alzasse piano tra i cumuli di abiti e scarpe sparsi attorno e volesse raccontare una pagina della storia italiana che a Trieste non smette di pesare. Le vicende di quelle
famiglie che dalla fine della Seconda guerra mondiale al ’55 fuggirono dalla pulizia etnica e dal regime di Tito. Da Fiume, Pola, Zara, Rovigno, Pisino e dai borghi dell’entroterra istriano.
350mila persone se ne andavano per sempre caricando nelle barche e nei camion un letto, una zappa, una camicia. Ma molta roba doveva rimanere in porto, nei campi profughi non c’era spazio. Negli anni la maggior parte è stata ritirata, ma duemila metri cubi restano ancora. E ora qualcosa verrà raccolto in un museo a Trieste. Il palazzo sarà pronto il 6 febbraio, dopo tre anni di lavori e grazie ai fondi dello Stato, di enti locali e privati, per un totale di 5milioni di euro. Sarà il primo museo al mondo dedicato alla memoria dell’esodo. Quattro piani con archivi, biblioteche e pinacoteche. Per l’allestimento ci vorranno altri sei mesi. «Quelle masserizie sono la fotografia di un popolo spazzato via» – dice Piero Delbello, direttore dell’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumanodalmata. Dopo la fuga dall’Istria, la ricerca di una nuova vita.
Trovarono sistemazione nei campi profughi disseminati su tutta la Penisola. Tanti emigreranno in Australia, Stati Uniti, Canada, Argentina. Anche la Risiera di San Sabba di Trieste, in Italia l’unico campo di sterminio nazista con forno crematorio, fu adibita a campo profughi per gli esuli. Quello di Padriciano, sul carso, chiuse nel ’75. «Abbiamo vissuto lì dodici anni» – racconta Fiore Filippaz. In una baracca, senza riscaldamento. Nell’inverno del ’56 il freddo uccise la sorella di un anno. Ma la sua famiglia ha sperato fino all’ultimo di non dover lasciare Cuberton, vicino Grisignana, il paese di don Bonifacio, beatificato di recente.
«Eravamo contadini, il regime ci costringeva a consegnare parte del raccolto, non ce la facevamo più. E gli spari nella notte, le improvvise sparizioni nel bosco». Parla di infoibamenti, la signora Fiore. A sessantun’anni i ricordi sono lucidi. Annamaria Muiesan
Gaspàri, settantasette anni, il padre non lo vide più da una notte del maggio del ’45. Era stato legionario fiumano con D’Annunzio, volontario in Abissinia, poi ragioniere comunale a Pirano. Verrà sequestrato e sgozzato, forse infoibato. Annamaria oggi scrive libri e poesie su quei tragici avvenimenti. In una fa suoi i pensieri della mamma che cerca il marito scomparso: «sono io che mi acquatto tra le stoppie per buttare pane ai prigionieri, io a soffrire le voci che implorano da bere, io la donna che si stacca dal gruppo, un poco correndo un poco inciampando, credendo di conoscere il suo uomo in uno di quei visi macilenti». Sono versi esposti nel Lapidario della Foiba di Basovizza. Annamaria ripercorre quelle ferite con lo sguardo disteso sul golfo di Trieste, da lì si intravedono anche i magazzini del porto, dove sono custodite le masserizie. Qualcuno adesso si chiede che fine farà la gran parte degli oggetti che non troverà spazio nel museo. In oltre sessant’anni sono sopravvissuti a spostamenti, demolizioni, saccheggi e incendi. Ma è una domanda che qui non ha ancora risposta.