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Trieste: l’autostrada del desiderio per gli jugoslavi (Il Piccolo 19 ott)

Da ”Fino all’ultimo respiro” di Rade Serbedžija pubblichiamo un ampio brano del capitolo ”Via Trieste alla maniera della Fratellanza e Unità”, per gentile concessione della casa editrice Zandonai.

di RADE SERBEDŽIJA

In genere ci recavamo due volte l’anno nella nostra Trieste, che ormai era definitivamente diventata la loro. Nonostante gli accordi internazionali, in realtà Trieste era rimasta la nostra città, dove commerciavamo al minuto e all’ingrosso, di cui partecipavamo a quel mondo che ci attirava con la sua realtà variopinta, il suo gusto e la moda offrendoci splendore e dubbia qualità. Tutto era impacchettato in un design che ci faceva girare la testa e al cui confronto la nostra triste realtà socialista, con i suoi obiettivi minimi e i suoi piani quinquennali, diventava una provincia ancor più remota, di cui segretamente ci vergognavamo e che nascondevamo fra dita non curate e grintose.

In primavera a Trieste si compravano le scarpe a punta, le calze di nylon, la biancheria intima colorata, obbligatoriamente i completi di jeans e gli impermeabili di plastica frusciante, azzurri, marrone e verde-oliva (uno per me, uno per lei, uno per rivenderlo e guadagnarci sopra). In autunno si acquistavano pullover colorati (da indossare solo il sabato sera), le scarpe invernali foderate in una finta pelliccia leggera, i cappotti in mohair e gli ”Hubertus”. Chi aveva più soldi comprava anche colbacchi di tutti i colori, leggeri come piume, così diversi dai nostri di fabbricazione russa, grigio-neri e pesanti, di astrakan e odoranti di naftalina e di pecora.

Ponte Rosso, via Carducci e piazza dell’Unità erano i luoghi di ritrovo più comuni, l’autostrada del nostro desiderio, la locanda delle nostra brame! «Trieste magnifica, Trieste fantastica». I bar con i migliori cappuccini, i nomi dei ristoranti con il pesce fresco e una pasta particolare si annotavano in apposite agende e si rivelavano solo agli amici intimi. Ricordo il lieve panico pomeridiano, quando mancava solo mezz’ora alla chiusura dell’Upim e del Coin e noi facevamo l’inventario di quel che eravamo riusciti a comprare. Non si poteva assolutamente tornare a casa senza almeno tre etti di mortadella e un po’ di gorgonzola, dall’odore che faceva aggrottare la fronte ai nostri doganieri. C’erano ovviamente, anche le sigarette, il fiasco di Chianti, lo Stock, il caffè, il cioccolato con le nocciole e la carta da parati a fiori per il soggiorno.

Erano lunghe le colonne di appassionati della moda italiana.

Dal monte Triglav fino a Djevdjelija.

Sulle corriere, cariche di valigie stracolme da cui fuoriuscivano trofei variopinti, i fortunati stringevano spasmodicamente tra le mani preziose buste di plastica. Costruttori del socialismo del Banato e della Macedonia, della Bosnia e anche della Dalmazia e di Zagabria, sull’autostrada della loro Fratellanza e Unità, verso l’Italia e ritorno.

Generalmente, dicevo, si andava a Trieste due volte l’anno, per tastare qualcosa di più saporito e profumato, di meno provinciale, qualcosa che non venisse dalle stalle, dalle tradizioni, che non fosse nostro ma universale, che ci attirava e ci inebriava come un’infanzia contrabbandata, alla stregua dei palloncini variopinti e delle agognate bolle di sapone. L’importante era sentirsi diversi – è sempre importante differenziarsi dagli altri. Noi, poi, avevamo ragioni profonde per volerlo, perché tutti, dalla famiglia alla scuola, durante lo struscio, subivamo in qualche modo l’ipnosi del nostro tempo, ne eravamo un po’ ammaestrati, con le paure della guerra ancora fresche, i ”nemici” che ci minacciavano, che volevano distruggerci, tagliarci la strada. Trieste era la prima destinazione di una libertà diversa, di un sentimento diverso, anche se devo ammettere che quel che contava davvero era il ritorno. Di nuovo nei nostri vicoli, sentieri e calli, al cospetto della ”roba” che ci eravamo accaparrati provavamo un senso nuovo di vittoria, quello di una soglia attraversata: con la merce colorata ci industriavamo a conquistare una ragazza, a ingelosire i vicini e gli ospiti a tavola…

Lo sguardo ansioso e perduto, alla furibonda ricerca del bagliore triestino – mentre come un intruso, con la roba trafugata, pensavo al doganiere e ai paesini di campagna – non avrei potuto neanche lontanamente immaginare che un giorno in quella stessa città sarei stato invitato come ospite speciale in occasione di un festival, che vi avrei ricevuto un premio internazionale non solo come attore, ma anche come regista e poeta.

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