Proseguono a cura del Comitato di Roma dell’ANVGD e della Società di Studi Fiumani, con la collaborazione del Dipartimento Attività Culturali e Turismo – Servizio Programmazione e Gestione Spazi Culturali di Roma Capitale, le conversazioni sulla cultura nelle terre Adriatiche presso la Casa del Ricordo di Roma e la Prima Guerra Mondiale, della quale in questi anni ricorre il centenario, è al centro di molte di queste iniziative. Così è avvenuto mercoledì 16 marzo 2016, con la relazione della prof.ssa Ester Capuzzo, docente di Storia Contemporanea presso la Sapienza Università di Roma, dedicata a “Memorie della Grande Guerra nell’Adriatico orientale: Trieste nella prima guerra mondiale”. Nel numeroso pubblico vi erano fra gli altri il dottor Pezza, presidente del Fogolar Furlan della capitale, ed il Sen. Lucio Toth, il quale ha formulato un saluto introduttivo alla serata.
La relatrice si è innanzitutto soffermata sul significato che rivestiva Trieste per gli italiani allo scoppio della Grande Guerra: considerata città sorella di Trento, lo scalo giuliano era tuttavia reputato genericamente come un centro estremamente cosmopolita e poco filtrava all’esterno in merito al disinteresse che i vari gruppi politici italofoni nutrivano per le sorti dell’Austria-Ungheria: l’ala internazionalista del Partito Socialista, capeggiata da Valentino Pittoni, e quella maggiormente patriottica concordavano nell’auspicare il tracollo asburgico, analogamente ai liberalnazionali, i quali avevano retto le sorti del comune fino allo scoppio del conflitto, ed ai giovani irredentisti come Ruggero Timeus, Mario Alberti e Attilio Tamaro. Eppure il primo luglio 1914 la testata filogovernativa “L’Osservatore Triestino” non si discostava troppo dal vero descrivendo la vasta partecipazione popolare che aveva accompagnato il corteo funebre delle illustri vittime dell’attentato di Sarajevo, giunte in città a bordo dell’ammiraglia dell’imperialregia flotta da guerra, quella stessa “Viribus Unitis”, che pochi giorni prima aveva accompagnato Francesco Ferdinando e la consorte sino alle foci della Neretva, da cui ebbe inizio la fatale vista alla Bosnia-Erzegovina. Nonostante il forte nesso economico del porto con Vienna, bene evidenziato da Angelo Vivante (suicida nel momento in cui l’Italia dichiarò guerra all’Impero asburgico), la componente italiana risultava sempre più invisa alle autorità viennesi, le quali provvidero all’epurazione del sindaco Alfonso Valerio e degli altri impiegati dell’amministrazione pubblica in seguito alla dichiarazione di guerra italiana, ricorrendo a norme speciali della legislazione di guerra promulgate dal governo senza ricorrere al dibattito parlamentare. Nel frattempo venivano richiamati alle armi gli uomini entro i 42 anni di età e così anche molti italofoni triestini dovettero presentarsi alla Caserma Grande (ove oggi sorge la centralissima Piazza Guglielmo Oberdan) per venire intruppati nel 97° Reggimento di Fanteria ed essere poi guardati sempre con un certo sospetto da parte dei comandi. Non tutti gli “italiani d’Austria”, infatti, indossarono il Feldgrau: molti si recarono in Italia allo scoppio delle ostilità per poi arruolarsi volontari nel Regio Esercito, potendo così contribuire all’assistenza fornita alle vittime del terremoto di Avezzano, ma cimentandosi soprattutto nella propaganda interventista. Gabriele Foschiatti fu tra i più attivi nel patrocinare la causa di Trieste italiana, il greco-ortodosso ma di profondi sentimenti italiani Spiro Xydias vide accettata appena nel maggio 1915 la sua domanda di arruolamento e Guido Brunner, caduto nel 1916 nelle fila della Brigata Sassari, era stato denunciato alle autorità austriache dal padre, andando a ricalcare la lacerante vicenda che Giani Stuparich immortalò nelle pagine di “Ritorneranno”, in cui un padre combatteva nell’imperialregio esercito ed il figlio in quello sabaudo. Anche nelle memorie di Diego De Castro affiora la vicenda di famiglie spezzate, con cugini combattenti dall’una e dall’altra parte dell’Isonzo.
Trovatasi a ridosso della prima linea a far tempo dalla primavera 1915, Trieste aveva già vissuto la drammatica vicenda delle devastazioni dei negozi e dei punti di riferimento cittadini della comunità serba nell’estate 1914 e di quella italiana alcuni mesi dopo e sentiva sempre più pressante il peso del blocco navale con il qual le potenze dell’Intesa cingevano d’assedio gli Imperi centrali. Fame e miseria venivano esasperate dal reindirizzamento dei prodotti del territorio istriano, naturale retroterra triestino, verso l’interno dell’Austria: le maggiori proteste vennero inscenate dalle donne, sempre più protagoniste sociali (in particolare come operaie nelle fabbriche militarizzate) dopo che la componente maschile della società era stata richiamata alle armi. Facendo seguito agli scioperi di Vienna (di cui ha lasciato testimonianza il giovane trentino di origine istriana Ernesto Sestan), anche nell’urbs fidelissima le manifestazioni di protesta diventarono sempre più accese. Il 30 ottobre 1918 il Fascio Nazionale, capeggiato da Alfonso Valerio, avrebbe preso il controllo della situazione in attesa dell’arrivo delle truppe italiane, che avrebbero posto fine al legame con Vienna instauratosi nel 1382. Dell’annessione al Regno d’Italia fu particolarmente lieta la comunità ebraica triestina, per la quale lo Stato dei Savoia rappresentava l’esempio massimo di emancipazione. Un sospiro di sollievo lo tirarono pure i cosiddetti “regnicoli”, cittadini del Regno d’Italia che lavoravano nel Litorale Austriaco: stimati in 30.000 alla vigilia della guerra, 10.000 di loro rientrarono in Italia nel corso del 1914, 3.000, fra i quali tanti pugliesi, vennero internati solamente nei giorni che precedettero la dichiarazione di guerra italiana, finendo a Katzenau, Wagna, Braunau ed in altre località austriache. I campi di internamento si erano già visti durante le guerre boere e nel recente conflitto russo-giapponese, ciò che apparve completamente nuovo, rispetto, ad esempio, alle Guerre d’Indipendenza, fu la volontà di distruzione totale del nemico, che avrebbe condotto fra l’altro agli stupri e alle violenze nei confronti delle donne friulane da parte di soldati austro-ungarici dopo la battaglia di Caporetto. E proprio con riferimento a Caporetto, si è conclusa l’ampia relazione della prof.ssa Capuzzo, la quale ha, infine, descritto la figura di Luigi Luzzatti, presidente della Commissione per i profughi di Caporetto appunto, diventando così il primo israelita a ricoprire un incarico di governo: egli avrebbe anche meritato l’appellativo di “piccolo padre” da parte degli armeni riparati a Bari per scampare alle persecuzioni ottomane e che in lui, profondo conoscitore del loro mondo e della loro cultura grazie alle frequentazioni presso la comunità armena di Venezia, trovarono un protettore.
Lorenzo Salimbeni