“Devi andare a Trieste – disse il Direttore del giornale -. Sul Carso hanno scoperto un pozzo nel quale pare che siano state buttate centinaia di persone, vive. Va a vedere di che si tratta”. A Roma era arrivata una fioca notizia, così, il 15 settembre del 1945.
Avvicinandomi a Trieste, dentro un treno stanchissimo, mi ricordai di Umberto Saba: “Avevo una città bella tra i monti – rocciosi e il mare luminoso”. Dopo il servizio, pensavo, andrò a trovarlo nella sua libreria di via San Nicolò.
L’autunno infiammava il Carso con i cespugli in fiore: sembrava che il pianoro di Basovizza, sopra Trieste, traesse dai foltissimi arbusti, densi di colore, una bellezza squillante. L’aspra Val Rosandra e l’Adriatico aprivano, in basso, vedute improvvise. Un’aria fresca giungeva dai monti oltre i quali comincia la distesa delle grandi foreste d’Europa. Ma nel vallone di Muggia stava affogata l’immensa carcassa del “Rex”, in un orrendo cimitero di navi.
Dietro un gruppo di arbusti c’era il pozzo per il quale avevo fatto il lungo viaggio: un innocente cratere, con la bocca larga quattro metri.
– Ma è profondo quasi trecento metri – disse il triestino che mi accompagnava. – Sono lì dentro, gli infoibati.
Una voragine che aveva, dunque, quasi la stessa misura della Torre Eiffel capovolta e infilata in terra. Mi feci raccontare i fatti. Il 30 aprile i cittadini di Trieste erano stati invitati ad accogliere le truppe di Tito come liberatrici. Il 1° maggio i croati entrarono a Trieste, scendendo dalla Selva di Tarnova e dal Monte Nevoso. Dal 3 maggio al 15 giugno vennero gettati in quella voragine 2.500 Italiani.
Adesso mi sembrava che sul silenzio del pianoro il sole applicasse il suggello di una spietata luce immota. Quattro mesi prima urli disperati avevano percorso quel luogo. Vi si era scatenata una ferocia per la quale l’altopiano di Basovizza significherà per sempre strage.
– Il 3 maggio – disse il triestino – durante 19 ore ininterrotte di coprifuoco, lunghe file di catturati hanno attraversato la città, con i polsi legati da filo di ferro, fra mitra spianati.
– Mitra di soldati ?
– Di gente senza faccia. Portavano divise tolte a italiani e a tedeschi fucilati dopo averli presi prigionieri.
– I rastrellati chi erano ?
– Persone d’ogni categoria: soprattutto civili, ma anche carabinieri, finanzieri, guardie civiche.
– Perché i civili ? Era una necessità politica sopprimerli ?
– Piuttosto un utile economico. Commercianti, piccoli industriali, imprenditori, denunciati proprio dai loro impiegati slavi. Ci sono slavi, adesso, a Trieste, che d’improvviso sono diventati proprietari di aziende o di case. I nomi li sanno tutti.
In quei giorni la parola “foiba” corse nell’aria della città con la spaventosa virulenza d’un veleno contro il quale nessun triestino aveva difese. In ogni strada arrivavano gruppi di armati e, fermandosi davanti a una casa, gridavano un nome; il chiamato si affacciava alla finestra e ascoltava l’annunzio: «in foiba». Annunzio di una morte orrenda, decretata da assassini. Il terrore di quella chiamata ha pesato su ogni casa di Trieste, poiché non c’è scampo all’avidità, che è più bestiale dell’odio.
– Ma chi emetteva le condanne a morte ?
– Politicanti locali, in processi sommari, senza difensori e senza appello. Il commissario jugoslavo Franz Stoka sguinzagliava per tutta la città i suoi agenti che arrestavano, ma derubavano anche.
– Anche donne sono state infoibate ?
– Famiglie intere: dovevano scomparire tutti, naturalmente. Non potevano rimanere testimoni, non dovevano rimanere eredi. E poi i croati sono abituati a scannare: lo fanno normalmente anche fra loro. Si scannano singolarmente e in massa, a villaggi interi. Le foibe sono state sempre una loro grande risorsa.
Infatti il croato Josip Broz Tito aveva detto che i cetnici sono «belve in veste umana» e i cetnici avevano definito i titini «bestie scatenate». Un’equivalenza assoluta.
Nelle carceri i condannati venivano chiamati in base ad elenchi, come al tempo della rivoluzione francese, poi avviati qui, a Basovizza, su autocarri. Nelle strade le guardie sparavano in aria per impedire agli abitanti di affacciarsi, ma i motori non riuscivano a coprire le grida. Infoibavano soprattutto all’alba: nella luce incerta riusciva meglio. Ordinavano a uomini e a donne di spogliarsi e li legavano a gruppi di dieci o venti. Perché ? chiedevano i condannati l’uno all’altro. Perché ? chiedevano agli aguzzini, tentando di resistere. Allora i croati s’inferocivano e minacciavano un massacro. Avevano fretta. «Sloboda vas ceka» ripetevano, e chi sapeva la lingua traduceva: vi aspetta la libertà.
Erano albe di maggio, albe ferme, col mare, in basso, impassibile. Il pianoro traeva qualche tepore dai cespugli. Le vittime si spogliavano dietro i cespugli, poi andavano in gruppo verso quello che nascondeva la voragine. Qualcuno forse pensava di trovare dietro quel cespuglio abiti rudimentali da indossare per avviarsi ai campi di concentramento jugoslavi. I croati sono miserabili, e un vestito è un vestito. Allora, forse, coperte, o sacchi. «Presto – gridavano i miliziani – sloboda vas ceka». E i prigionieri, a metà ingannati, si affrettavano come potevano: qualcuno quasi con la speranza di ricevere più di un sacco in cambio dei vestiti che aveva deposto.
– Si sono visti in giro per la città – disse il triestino – croati che portavano in mano anche scarpe di infoibati, di misura non adatta ai loro piedi.
Mi tornò alla mente Josip Broz Tito che a Napoli si era esibito, sotto un solleone d’estate, in un pesante e scenografico addobbo azzurro da supergeneralissimo, confezionato con ingredienti russo-americani: di fabbricazione sovietica il panno, di provenienza Usa l’oro sovrabbondante degli alamari. Qualcuno aveva affermato che quell’umoresco connubio poteva rappresentare un ponte fra l’Oriente e l’Occidente. Basovizza, invece, vedeva nude anche le «mule», le ragazze di Trieste. Qualcuna non credeva di dover morire: la foiba poteva essere una caverna nella quale aggirarsi alla cieca, con un’ultima speranza di salvezza.
Ma fra i condannati in attesa, che vedevano scomparire gli altri dietro il grosso cespuglio, alto cominciò a levarsi il “Padre Nostro”, urlato, mentre i croati torcevano frettolosamente con le pinze il filo di ferro ai polsi, ripetendo il ritornello ottuso: vi aspetta la libertà.
Sull’orlo della foiba solo qualcuno di ogni gruppo veniva abbattuto a colpi di mitra: precipitando giù, i pochi morti dovevano trascinarsi dietro tutti gli altri, vivi. Un supplizio di antica tradizione. Davanti al baratro, qualcuno si sarà chiesto se sarebbe toccato a lui sopravvivere ancora un po’ nella foiba, fra i cadaveri degli altri che gli erano avvinti con il filo di ferro e lo avrebbero soffocato.
I 2500 di Basovizza sono morti così: cento volte peggio dei 334 delle Fosse Ardeatine e dei 4253 delle Fosse di Katyn. Sono morti nudi, sul loro Carso, precipitati vivi in un pozzo lungo come la Torre Eiffel, inghiottiti a catena, sbattendo da uno spuntone all’altro della voragine, martoriandosi fino a schiantarsi, dopo il lunghissimo tragitto, nel fondo. Dalla voragine risaliva appena, ogni volta, l’eco dell’ultimo urlo.
Alcuni andarono a morire con la mente sfaldata dall’angoscia, con scoppi di riso convulsi, come atroci lame di pazzia tra le preghiere e i pianti.
– Ci sono stati anche infoibamenti isolati – disse il triestino. – Due o tre si sono buttati dentro spontaneamente.
Gli uccisi sull’orlo della foibe furono, comunque, i più fortunati. Chi si buttava a terra, nella pazza speranza di resistere, lo colpivano con calci al viso, lo costringevano a rialzarsi e a precipitare, trascinato giù dagli altri appena trucidati. Solo qualcuno si ebbe un colpo alla nuca, come un miracolo di pietà.
– Hanno fatto anche il tiro al volo. Nei momenti di buonumore a qualcuno hanno promesso la salvezza se riusciva a saltare il pozzo senza cadervi dentro.
Già, salto in lungo di quattro metri. Un campione arriva anche a sei metri, ma fra quei poveri condannati non ce n’erano. I più rinunziavano. Gli aguzzini dissero «salta» anche a una «mula». Aveva le cosce forti, ma rifiutò: aspettò un momento sull’orlo, senza implorare, con l’ultima speranza che le dicessero di tornare indietro. Era giovane, i capelli lunghi e un gran seno: ma vide che ridevano e si buttò giù. L’orgoglio di Trieste.
– Per quelli che hanno tentato il salto c’è stata sempre una raffica di mitra che li ha colti a mezz’aria. Sparavano come ai fagiani.
Basta. Mi pareva che il gran sole di mezzogiorno desse all’aria un sapore sporco. Scomparsi per sempre gli infoibatori, restava il fetore dei trucidati che saliva dalle viscere della terra: fetore di Italiani davanti a Trieste e all’Adriatico, sul Carso maledetto, arido dentro e fuori, ipocritamente vestito di infiammati colori autunnali. Adesso me lo sentivo friabile sotto i piedi, come se calpestassi cadaveri coperti da una crosta. E, invece, i poveri morti stavano ammucchiati nel ventre del Carso, ma in verticale, poltiglia di corpi nudi, teste fra le gambe, bocche sui testicoli, piedi sui seni. Nessuno considererà mai eroina la «mula» che per orgoglio non aveva saltato e si era buttata giù.
Alzai la voce, ma si perse nello spazio. L’aria di questo settembre era tiepida, mi abbassai per toccare la terra, ma la sentii fredda. Tutto il pianoro mi pareva la gelida lastra di un sepolcro dal quale gli infoibati avrebbero potuto saltar fuori, ad uno ad uno o in gruppi di dieci o di venti, com’erano prima di diventare poltiglia.
Il sole alto si insinuava anche tra i cespugli, ma pareva che temesse la foiba, che si limitasse a orlarne la bocca. Allora mi affacciai alla voragine e ci gridai dentro, ma neanche la mia voce ebbe il coraggio di sprofondarvi. La poltiglia italiana era a trecento metri e un diaframma di vuoto la separava da me.
– Una vecchia – disse ancora il triestino – è rimasta impigliata con la gonna ad uno spuntone, che non si vede perché sarà a dieci metri. Era magra, di poco peso. Gridava, ma gli slavi se ne erano andati perché il lavoro di quel giorno era finito. La vecchia continuava a urlare e la foiba mandava ruggiti. Sono corsi quì alcuni contadini, ma a dieci metri nessuno poteva arrivarci, impossibile tirarla su. Inutile anche mandarle parole di coraggio, meglio farla morire al più presto. Così hanno portato paglia, l’ hanno accesa e spinta giù nella foiba. La vecchia ha cacciato un urlo senza fine e con le vesti incendiate è precipitata fino in fondo.
Poi un altro racconto: Andreina Peterossi, la postina di Sant’Antonio in Bosco, arrestata, insieme al marito e a una figlia di due anni, perché sapeva troppe cose. Era una donna energica e riuscì ad ottenere che la legassero insieme alla bambina e che non spogliassero nessuno del gruppo. La bambina precipitò giù viva perché la madre, cadendo, l’aveva coperta.
Guardai ancora dentro la voragine. Un sole guasto, senza più bagliore, gravava ormai sul pianoro. Nella luce funerea la terra aveva un fiato greve, e mosche grasse e lente arrivavano, mosche croate, per pascersi nel tepore untuoso di Basovizza. Per un attimo echi di urli mi tornarono addosso dallo spazio nel quale si erano dispersi, e insieme un clamore di sotterra, filtrato dalla pietra spenta del Carso. Poi echi e clamori si impastarono in un silenzio simile ad una maledizione, davanti al fondale astioso delle montagne.
Tornai giù, a Trieste, raccolsi qualche altro frammento della grande tragedia, ma non cercai Umberto Saba. Non era più tempo di poesia. «Avevo una città bella tra i monti – rocciosi e il mare luminoso». Adesso Trieste era immersa in un dolore aspro, un lutto acuminato. Le campane di San Giusto suonavano cupi, lentissimi rintocchi per interminabili riti funebri. Una città violentata da un massacro umano peggiore di un cataclisma naturale che l’avesse distrutta dalle fondamenta.
di Franco Monaco