Ho letto recentemente le segnalazioni «I crimini degli italiani» (in guerra…) e «Il mattatoio balcanico» e «La barbarie degli italiani» a firma dei puntuali «contabili» sui crimini degli italiani. Nessuno si illudana perciò di scondere i crimini degli italiani nel mattatoio balcanico. Ma spesso si va in una sola direzione: non si parla mai dei crimini dei non italiani (sloveni, croati, serbi), avvenuti in tempo di pace. Secondo un lettore addirittura Hitler definiva gli italiani assassini di innocenti. Da quel pulpito si applicava la rappresaglia di dieci innocenti per ogni nazista ucciso. A questo arriva il livore. Ad evitare disillusioni in chi vede solo le colpe altrui tacendo delle proprie, completo parzialmente la macabra «contabilità» nel mattatoio balcanico. Il massacro di Bleiburg, sul quale è disponibile una vasta pubblicistica. A Bleiburg si consegnarono decine di migliaia di belagardisti, domobranzi, cetnici, ustascia,(tutti anticomunisti…) compresi i familiari, donne, bambini e anziani.
Le truppe inglesi, in barba agli accordi al momento della resa e secondo i trattati internazionali sul trattamento ai rifugiati politici, consegnarono in seguito queste persone ai partigiani titini con le prevedibili conseguenze. La storica slovena Jerca Vodušek-Staric dell’Università di Maribor scrive di 14.531 sloveni (belagardisti?) e di 65.000-100.000 croati (domobranzi?) uccisi nel maggio ’45. Su quello di Kocevje si veda «Kocevje: Tito’s Bloodiest Crime», libro di Boris Karapandzic (Cleveland, Usa 1958). È caratteristico che sui crimini sloveni, croati e serbi si premette sempre che è impossibile quantificare l’esatto numero delle vittime e quindi ci sono varie «contabilità», come nel numero degli ingrottati carsici. Si va da «poche» decine di migliaia a «poche» centinaia di migliaia di vittime, compresi i familiari al seguito, donne, bambini e anziani. Un elenco non esaustivo comprende anche le fosse comuni di Tezno (Maribor): un chilometro di lunghezza, 4-6-metri di larghezza e 2 metri di profondità, ritrovate nel 1999 durante la costruzione dell’autostrada. Poi c’è Borovnica (gli storici sloveni definiscono quello di Borovnica come il peggiore dei campi d’internamento jugoslavi).
Le stime sui deportati, molto approssimative, vanno dai 5000 ai 10.000, quelle sugli scomparsi dai 3000 ai 5000. Gli elenchi furono distrutti dall’Ozna, la polizia segreta jugoslava, per ordine di Josip Broz Tito. Bisogna «contabilizzare» anche le vittime nelle marce di trasferimento da Bleiburg-Maribor-Ptuj-Varaždin e Bleiburg-Celje-Krapina. Del mattatoio balcanico fa parte anche Teharie (Celje). Alla fine della guerra, il nuovo governo si avvantaggiò delle trincee anti-carro esistenti, scavate attorno a Celje dai tedeschi in ritirata, usandole come tombe. Vennero riempite di soldati croati sloveni e serbi e di civili che si opposero alla rivoluzione comunista durante la guerra; il che significava eliminare fisicamente la potenziale opposizione politica. L’esercito jugoslavo massacrò più di 30.000 prigionieri (principalmente croati) nell’area di Celje, senza alcun processo. I corpi vennero sepolti in fosse comuni nascoste attorno a Celje; il numero esatto è ancora sconosciuto.
Nel campo di concentramento di Teharje, circa 5000 sloveni, centinaia dei quali minorenni, vennero assassinati nel giro di due mesi dalla fine della guerra, anch’essi senza processo. Dopo l’abolizione del campo di concentramento nel 1950, le autorità locali crearono una discarica industriale sul luogo delle sepolture, nascondendo così i corpi sotto una vasta collina di rifiuti tossici. Analogo discorso vale per Huda jama, presso Laško, ricordata anche dal giornalista Mauro Manzin. Questo ritrovamento porta a 600 il numero delle fosse comuni rinvenute in Slovenia, risalenti per lo più all’immediato secondo dopoguerra. Una volta stabilito, secondo le varie «contabilità» chi ha ammazzato di più e chi di meno, la conclusione è unica: nessuno può permettersi di dare lezioni agli altri su questi tragici fatti. Tutti, italiani, sloveni, croati, serbi, hanno armadi ben forniti di scheletri non simbolici e quindi non si può pensare di raccontare la storia tentando di nascondere o minimizzare le proprie responsabilità. Con gli strumenti moderni a disposizione si viene in breve «aggiornati» sugli avvenimenti trattati. A ciascuno il suo.
Flavio Gori
“Il Piccolo” 30 settembre 2012