La guerra è finita da qualche anno. La città di Trieste assiste al suo “anno zero” pieno di incertezze e con un futuro ancora da scrivere. In questi anni Giani Stuparich rappresenta una delle voci più vive della cultura triestina. Pur continuando con fervore ad impegnarsi nel campo delle lettere, non interrompe suo impegno civico a favore della città. Ne dà testimonianza attraverso numerosi articoli su riviste quali “Il Ponte” e “Trieste” o su giornali quali “La Stampa” e “Il Tempo”, nonché con le sue prese di posizione sui problemi più scottanti come in occasione del Trattato di pace del 1947. In tale frangente esprime tutta la sua contrarietà, ricordando il dramma degli italiani dell’Istria, della Dalmazia e di Fiume e le responsabilità del governo italiano e delle grandi potenze.
Si interroga sul passato e con tono amareggiato sul presente: “Se Trieste avesse seguito, alla fine di questa guerra, la sorte di tutte le altre città italiane, forse questi miei ‘ricordi’ non sarebbero nati. Ma, mentre i nostri fratelli d’Italia poterono, negli ultimi giorni d’aprile del 1945, sentire che finiva veramente per loro un funesto periodo e se ne apriva uno nuovo, anche se duro, per la rinascita, noi triestini vedemmo rispondere al nostro anelito di libertà prima coi quarantacinque giorni [in realtà furono quarantadue, N. d. R.] dell’occupazione jugoslava, poi con quella anglo-americana, infine col dono beffardo del Territorio Libero e la mutilazione dell’Istria. Fu in questi tempi di disperata umiliazione che, non potendo rivolgere l’animo al futuro, io mi volsi al passato, non come chi cerchi di consolarsi d’un passato felice, ma come uno che frughi in anni considerati perduti, per vedere se non fosse rimasto qualcosa di positivo, di cui far tesoro nella miseria e nell’avvenimento presenti”. Nelle sue vene scorre sangue lussignano, e brucia la delusione per la perdita dell’Istria, la terra della sua infanzia, spesso proposta nelle sue pagine. Stuparich non perdona ai governanti “di aver permesso lo strazio di Zara, di Fiume, il suicidio di Pola e la tragedia di tutte le nostre belle città istriane, italianissime fin nelle pietre”. E i ricordi contano per Giani; sono ricordi familiari, legati al territorio, l’Istria e a Lussino specialmente. È una memoria necessaria per decifrare il complesso e contrastato dna del territorio.
Riflessioni raccolte in numerose carte che da anni attendono di essere ripubblicate. Una parte di questo corpus è ora impresso in “Un porto tra mille e mille. Scritti politici e civili di Giani Stuparich nel secondo dopoguerra”, a cura di Patrick Karlsen (Edizioni Università di Trieste, 2013, pp. 139, 13 euro) con prefazione del rettore dell’Ateneo triestino, Francesco Peroni, e postfazione di Fabio Forti, presidente dell’Associazione Volontari della Libertà di Trieste.
Il volume vuole idealmente concludere il ciclo del cinquantenario della morte di Stuparich (1961 – 2011) mediante la pubblicazione di un’ampia selezione degli interventi di carattere politico e civile che egli redasse nel secondo dopoguerra per alcune delle testate di maggior diffusione (tra cui “Il Ponte”, dell’acuto giurista e letterato Piero Calamandrei, “L’Italia Libera”, “La Stampa”, “Epoca”, “Il Corriere della Sera”). Molti di questi scritti da allora non hanno più trovato diffusione e leggerli oggi hanno il sapore dell’inedito. Mi riferisco a “Saluto alla vita (lettera agli amici)”, su “Il Ponte” del 1945, “La Venezia Giulia: quale giustizia”, apparso su “Illustrazione italiana” l’anno successivo, “Giornate triestine” su “Mercurio” nel dicembre dello stesso anno sino a “Un porto” pubblicato nel 1960, un anno prima della sua dipartita, nelle pagine de “Il Tempo”.
Sono dei quadretti in cui si dipinge una città che, abbandonata al suo destino, trova voce per mezzo del suo rappresentante più autorevole, il volontario della Grande Guerra, Medaglia d’Oro al Valor Militare e attento studioso degli eventi storici cittadini. L’uomo, che anche nei tempi bui dell’occupazione nazifascista aveva vissuto con determinazione i tremori e le ansie della sua città. “C’è anche un rapporto fisiologico con la propria città”.
Si riferiva ai giorni bui del 1944, quando l’esercito tedesco imprigionava le rive e i moli di Trieste nel filo spinato dell’Adriatische Kustenland. Il suo animo era sopraffatto da nausea e pietà insieme: l’abominio di quella violenza gli si rivelava in tutta l’empietà proprio perché a uscirne umiliata era la coscienza di tutta una città avvilita nel presente, ma più ancora nelle memorie del suo passato.
Noto è il suo discorso, pronunciato durante una cerimonia commemorativa sul colle di San Giusto il 4 novembre 1948, accennando alla responsabilità generazionale per la tragedia dell’Italia invasa e divisa; se “la guerra del ’15-’18 fu una guerra di rivendicazione e di giustizia”, e la redenzione della Venezia Giulia “epilogo glorioso”, ciò che seguì fu la “più dolorosa tragedia della nostra Patria”. Ma se l’Italia si salvò, grazie anche al contributo degli eserciti alleati, “lo si deve agli italiani stessi, che insorsero prima spiritualmente nella loro coscienza, nei loro sentimenti, e poi fisicamente nelle capanne e nelle officine, per i monti e per le città, da per tutto, in una lotta oscura, difficile, doppiamente ingrata e dolorosa, ricca di sacrifizi e di sangue. Ma in questa lotta e con questa lotta essi dimostrarono al mondo che l’Italia amava la Libertà, combatteva per la Libertà, sapeva morire per la Libertà e la Giustizia”.
Dall’antologia emerge l’intensità dell’impegno civile profuso da Stuparich al momento in cui, ritrovata la libertà, si apriva per il Paese e per il confine orientale italiano una stagione densa di contraddizioni, capace di mescolare come poche altre angoscia e speranza, entusiasmo e disillusione. Giani ripropone nel discorso pubblico i valori a cui si ispirò nell’opera di tutta una vita, mai disposto a transigervi, sempre pronto a pagare in prima persona: la democrazia e la giustizia, il sentimento di una Patria aperta e inclusiva, la fiducia in un’Europa di nazioni libere e solidali. A mezzo secolo dalla sua scomparsa, di questi ideali Trieste e l’Italia continuano a sentire il bisogno; della nobiltà d’animo che li ha sorretti, il riverbero ancora è vivo.
Patrick Karlsen ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia contemporanea presso l’Università di Trieste; in seguito è stato borsista all’Istituto italiano per gli studi storici “Benedetto Croce” di Napoli. Si occupa delle culture politiche di Trieste e della Venezia Giulia nel Novecento e di storia del comunismo internazionale.
Francesco Cenetiempo
“la Voce del Popolo” 4 aprile 2013