FIUME – Senza grossi paroloni, senza retorica, senza quell’enfasi che spesso contraddistingue i politici, così un vecchio di Pola, esule in Italia, narra il dolore dell’abbandono della propria terra: “Pensate a casa vostra, al vostro quartiere, alla vostra città. Gli odori, i colori, le vie, la gente. In ogni angolo risuonano voci e rumori. È la vostra terra. Ne riconoscete quasi per istinto il respiro. Dialetti, tradizioni e modi di dire. Feste, canti e luoghi di ritrovo. Luoghi d’amore, che vi dicono chi siete e da dove venite. Ecco, provate ora a immaginare il silenzio. La vostra città, i suoi vicoli, le sue piazze, le sue chiese senza più rumori, odori, parole, senza più la sua gente. Vuota. Silenziosa. Deserta. Un silenzio irreale che avvolge e ovatta tutto. Il vostro mondo diventa altro. Lentamente si spoglia di voi. E voi di lui. Altri se ne appropriano. Altri prendono il vostro posto. Quelle vie che erano la vostra stessa identità, oggi, rivedendole lasciano nell’animo solo un’innaturale senso di estraneità.” Ora, immaginate di passare per queste stesse calli e piazze – luoghi in cui siete nati e cresciuti, e prima di voi i vostri genitori e nonni, e chissà ancora quante generazioni addietro – e non solo sentirvi maledattamente stranieri a casa propria, ma di venir additati con il marchio infame di “fascisti”. Perché italiani. In Istria, a Fiume (e macroregione), in Dalmazia. Esuli e rimasti: due voci di una tragedia comune; due voci che da tempo stanno gridando l’ingiustizia subita sessanta e passa anni fa. Per decenni nessuno le ha ascoltate e, per certi versi, alcuni continuano, in parte, ancor sempre a ignorare, a far finta che non esistano, oppure a sentire una sola delle due. Quella più insistente, o semplicemente quella più capace di ottenere quell’amplificazione necessaria affinché la si percepisca nella maniera più incisiva.
Di libri sulle foibe e sull’esodo degli istriani, giuliani e dalmati, ne abbiamo ormai a disposizione parecchi. Dopo il Giorno del Ricordo (10 febbraio), che rende omaggio, in Italia, alle vittime di queste vicende dimenticate, oltraggiate da un silenzio colpevole, si sono moltiplicate documentazioni, racconti, ricostruzioni storiografiche sulle sofferenze di 350mila persone costrette a lasciare le loro case dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Una voce, quella degli esuli, che dunque si sta facendo strada anche tra il più vasto pubblico da qualche anno a questa parte.
Presentazioni a Fiume e Trieste
Trasversalmente, dà spazio anche “all’altra voce”, quella dei rimasti, uno dei libri freschi di stampa sull’argomento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, di Jan Bernas, edito da Ugo Mursia (Milano 2010, 192 pp., 16 euro), con una coraggiosa prefazione a firma di Walter Veltroni. Il volume verrà presentato venerdì prossimo a Palazzo Modello, con la partecipazione di Jan Bernas, nell’ambito di un incontro promosso dall’Unione Italiana in collaborazione con la Comunità degli Italiani Se ne parlerà anche a Trieste, il giorno prima, nella sala di lettura della libreria “Minerva” (via S. Nicolò, ore 18), su iniziativa del Circolo di Cultura istro-veneta “Istria”, con l’intervento dell’autore, di Livio Dorigo, presidente del Circolo, e del giornalista Ezio Giuricin. Jan Bernas, giornalista italiano di origine polacca, nasce a Roma nel 1978 e attualmente lavora per l’agenzia di stampa Apcom, occupandosi dell’Europa Centro-Orientale e balcanica. Scrive per “Il Messaggero” e collabora con la Fondazione Farefuturo, con il blog “Il Cannocchiale” e con la rivista di geopolitica “Equilibri”. Laureato all’Università di Bologna in Scienze Internazionali e Diplomatiche, ha conseguito un master in European Policy presso il College of Europe.
Un’opera che, tra cronaca e storia, ricostruisce tassello dopo tassello l’intero mosaico, il dramma comune di un popolo. L’Unione Italiana l’ha definita “meritevole di essere distribuita” nel territorio dell’insediamento storico degli italiani che ne sono protagonisti, tra le Comunità degli Italiani, le scuole e le istituzioni dei rimasti, la Comunità Nazionale Italiana. Nel motivare la proposta di acquistare, dalla casa editrice, duecento copie del libro (con uno sconto del 35 per cento, per cui il valore complessivo dell’operazione è di 2.130,46 euro al lordo, comprese le spese di imballaggio e di spedizione), la Giunta esecutiva dell’UI rileva che l’autore, con questa pubblicazione, “ha voluto presentare sotto una diversa luce, fatta di testimonianze, una pagina di storia italiana troppo spesso dimenticata”, e ha intervistato e raccolto le testimonianze di diversi connazionali rimasti: Claudio Ugussi (Buie), Giovanni Radossi (Rovigno), Anita Forlani (oggi a Dignano, ma originaria di Fiume), Tullio Vorano (Albona), Nella Smilovich (Pola), Laura Marchig, Elvia Fabianić e Maria Schiavato (Fiume). Le loro, le nostre storie, si affiancano e intrecciano a quelle degli esuli Bruno De Bianchi (Cittanova), Mafalda Codan (Parenzo), Sergio Bormé (Rovigno), Livio Dorigo, Myriam Andreatini e Lino Vivoda (Pola), Abdon Pamich, Franco Gaspardis, Federico Falck ed Erio Franchi (Fiume), nonché all’esperienza di Dino Zanuttin, di Gradisca d’Isonzo, uno dei tanti italiani del cosiddetto controesodo che nell’allora Jugoslavia, nei campi di concentramento titini, vedrà infrangersi il sogno di una società più giusta e migliore.
Un «mea culpa»
Il libro in Italia ha avuto eco soprattutto per una sorta di “mea culpa”, messo nero su bianco, da Veltroni. Per l’ex segretario del Partito democratico, quello che portò alla tragedia delle foibe fu “un odio alimentato dall’ideologia, in questo caso soprattutto dall’ideologia comunista”. “La verità – aggiunge il politico italiano, che già in passato aveva sottolineato responsabilità e silenzi della sinistra italiana sulla tragedia delle foibe – è che nessuna costruzione ideologica, di nessun tipo e di nessun colore, può giustificare la violenza, la privazione della libertà la persecuzione e l’uccisione di migliaia di persone. E non c’è niente, né un se, né un ma, che possa far dimenticare il modo orribile in cui questo avvenne”. Veltroni con le sue parole chiarisce gli equivoci su “quell’ondata di violenza antitaliana” e non nasconde le responsabilità di quella rimozione: “Di quelle sofferenze e di quello sconvolgimento, infatti, l’Italia e la Repubblica non hanno colto né allora, né per tanto tempo dopo, la portata e il significato nazionale. Anche per colpa di una parte importante della cultura della sinistra, prigioniera dell’ideologia e della guerra fredda”. Una sinistra che troppo spesso ha minimizzato la portata di quello che avvenne, giustificandola con la crudeltà dell’occupazione fascista dei territori sloveni e croati: “Ma questo nulla toglie al dovere che tutti hanno di riconoscere che nessun rancore storico, nessuno spirito di vendetta può giustificare quel che avvenne, e il modo barbaro in cui avvenne. Ad alimentare l’espansionismo nazional-comunista di Tito fu un intreccio perverso di odio etnico, nazionale e ideologico. Un odio che colpì, come mette bene in luce l’autore, fascisti, antifascisti, persone senza una precisa posizione politica”.
Oltre le foibe
Brevi capitoli dedicati alla storia, poi Jan Bernas cede il passo alla voce dei protagonisti: ricorda gli italiani, quelli costretti ad andarsene e quelli rimasti – goccia in un mare slavo – a difendere con ostinazione la propria autoctonia. Gli esuli, “dimenticati da una patria matrigna, che dopo oltre sessant’anni ancora fatica a riconoscere dignità e onore a migliaia di suoi figli, sacrificati per lavare gli errori e gli orrori di una guerra sciagurata”; i rimasti, abbandonati di fronte all’avanzare delle truppe jugoslave di Tito alla fine della Seconda guerra mondiale. Come sottolinea l’autore, “paradossalmente, tutti subirono la stessa accusa: fascisti! Gli esuli perché in fuga dal paradiso socialista. I rimasti perché italiani”. Questo libro, spiega Bernas, vuole andare ben oltre le foibe, diventate nell’immaginario collettivo simbolo di una vicenda assai più complessa. Perché nell’ascoltare le tante storie riportate, emerge che donne e uomini, spesso di fede politica opposta, sono accomunati dalla stessa sorte e dalla stessa accusa: “Fascisti!”.
Situazioni paradossali
A differenza dei numerosi testi finora pubblicati su tale argomento, “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani” non si limita a riportare vicende passate, ma offre una prospettiva presente, raccontando le difficoltà e le condizioni, spesso al limite dell’assurdo, in cui vive da sessant’anni la CNI, spesso affiancando e confrontando le esperienze di italiani che, oltre a essere connazionali, sono stati in un certo senso anche concittadini. Non per “autismo”, ma semplicemente per dare rilievo a una “storia che nella storia è stata doppiamente obliata, riportiamo le parole dei “rimasti”. Esordisce il pittore e scrittore di Buie (nato a Pola), Claudio Ugussi: “Siamo cresciuti portandoci sulle spalle il peso di un marchio di fuoco, indelebile: ‘Italiani fascisti’. (…) Tutto quello che era italiano era fascista. Era automatico. Il paradosso era che in Italia, noi che avevamo deciso di restare e di non abbandonare la nostra terra, siamo stati, e a volte lo siamo ancora, tacciati di essere comunisti. O peggio, amici di Tito. Qui, i croati invece ci urlavano: ‘Fascisti!’. Uno strano destino, il nostro. Fascisti in Croazia, comunisti in Italia.”
Anche il rovignese Giovanni Radossi illustra quanto è stato difficile essere, rimanere italiani a casa propria, mantenendo la propria dignità e l’onestà morale e intellettuale: “In città (Rovigno, nrd) non c’era un atteggiamento pregiudiziale antiitaliano, a condizione che gli italiani fossero assolutamente e dichiaratamente a favore dell’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Una discriminante fondamentale a quei tempi. Noi italiani, ancor prima della fine della guerra, eravamo distinti nell’ottica slava tra buoni e cattivi. I ‘buoni italiani’, così ci descrivevano i giornali slavi dell’epoca, erano coloro che in qualche modo avevano accettato o per paura o per convinzione il progetto di annessione e di slavizzazione dell’Istria da parte della Jugoslavia. Nella categoria ‘italiani cattivi’ rientravano, invece, tutti quelli che (…) avevano avuto legami diretti con lo Stato e le istituzioni italiane, anche se non compromessi con il fascismo. (…) Una distinzione che è rimasta ancora ai giorni nostri.”
Astio e repulsione
Restare non era impossibile, sebbene difficile, e non di rado significava soffrire, sopportare angherie. La fiumana Elvia Fabijanić (Fabianich, nel libro), all’epoca diciassettenne, finì in carcere, in cella con le prostitute, per una bravata, l’aver strappato dal libro la foto di Tito. E non fu (non è piacevole) sentirsi sempre e comunque “diversi”; stranieri in patria, ma stranieri anche in Italia, dove c’è stata una voluta rimozione della memoria, un oblio collettivo che “ha relegato noi e queste terre nel rifiuto e nella vergogna per il fascismo”, confessa Laura Marchig, di Fiume, che nella sua testimonainza parla anche di “scontro di culture”: “Il mondo croato (e quello slavo in generale) è sicuramente più aggressivo del nostro. E noi italiani di fronte a questa aggressività di solito soccombiamo.”
Ma non senza lottare. Un grosso peso fu sostenuto – e continua ad essere sostenuto – dalla scuola, dagli insegnanti che salvarono/salvano le istituzioni dalla loro chiusura, dallo svilimento. Come narra Anita Forlani: “Era una lotta quotidiana contro i soprusi e i più svariati tentativi di ridurre gli spazi delle tradizioni e della cultura italiana. Insieme ad altri professori ci battemmo perché la lingua italiana fosse insegnata anche nelle sezioni croate. (…) Scoppiò una specie di rivolta. Gli alunni croati uscivano dall’aula quando iniziava l’ora di italiano. Insegnanti, colleghi ci chiamavano fascisti. Ci facevano il saluto romano quando passavamo. Non fu facile da sopportare. Erano umiliazioni continue. Sono certa che nei giovani di allora, oggi oltre la quarantina, è rimasto un sentimento di astio, di repulsione verso gli italiani, pur avendo imparato e utilizzato la nostra lingua. (…) Nonostante tutto, alla fine siamo riusciti con determinazione e coraggio a mantenere vive le nostre tradizioni e a salvare la scuola, da allora punto di riferimento importante per la comunità italiana, che comunque resta debole ed emarginata.”
Altrove la scuola italiana non si salvò. Ad Albona il decreto Peruško comportò il trasferimento forzato dei ragazzi con cognomi che terminavano in “ich” nelle scuole croate e, conseguentemente, la chiusura degli istituti italiani. Un provvedimento che ha irrimediabilmente compromesso la continuità storica della presenza italiana nell’Albonese. “La comunità degli italiani qui è molto piccola. Non ha speranza di sopravvivere. Non c’è neanche una scuola di lingua italiana. Non riusciamo ad avere quadri dirigenziali. (…) Quel poco che è rimasto dell’italianità ad Albona è destinato a scomparire negli anni. Sarà rintracciabile solo nei monumenti o nei libri di storia”, afferma Tullio Vorano.
Rimanere: non sempre fu una scelta e, anche se lo fu, seppur fatta consapevolmente, non fu semplice convivere con le conseguenze di tale scelta. Fu giusta o sbagliata? Un dilemma che, ne siamo convinti, accomuna esuli e rimasti. Ci fu chi partì per l’Italia ma tornò indietro. Nella Smilovich, polese, cita l’esempio di suo padre: “Non riusciva ad abituarsi all’idea di vivere lontano dalla sia terra. Così decidemmo di tornare a casa nostra, a Pola. Non ci volle molto tempo per capire che avevamo commesso un grave errore. La nostra, si era trasformata in una città fantasma. (…) Anche noi, tornando, ci eravamo di colpo trasformati. Nella Jugoslavia di Tito non eravamo più italiani, ma italiani fascisti. (…) Optammo due volte per la cittadinanza italiana, per tentare di ripartire nuovamente. Ma questa volta le autorità slave non ci lasciarono andare e così fummo costretti a rimanere.” Era cambiato il contesto: se nell’inverno del 1947 vi era tutto l’interesse, da parte degli jugoslavi, di ritrovarsi con una presenza etnica italiana ridotta al lumicino, anche al fine di legittimare l’annessione dell’Istria, più tardi, consolidato il nuovo potere, le dimensioni dell’esodo rischieranno di “offuscare” l’immagine che il regime – e quella decantata “fratellanza di popoli” – voleva dare di sé.
Dimenticare/recriminare
Microstorie, piccole vicende personali che fanno la Storia, che portano a galla tutte le sfaccettature di questo mosaico di dolori. A lungo gli Stati coinvolti – la stessa Italia, per non parlare della Jugoslavia, poi della Slovenia e della Croazia – hanno cercato di rimuovere questa pagina di storia. Qualcuno dei protagonisti, a livello personale, avrà cercato anche di dimenticare, di reprimere i sentimenti, i ricordi. Per poter andare avanti. C’è anche chi ha cristianamente perdonato. C’è chi non ce la fa. “Non posso. A chi dice oggi che bisogna dimenticare tutto, che dobbiamo andare verso una riconciliazione, vorrei rispondere: ‘Troppo facile. Avresti dovuto esserci anche tu lì con me a Goli Otok, per capire quello che ci hanno fatto, riducendoci a bestie e distruggendo quel che c’era di umano nell’uomo’. Gli slavi li ho odiati e li odierò per sempre”, ammette Sergio Bormé, esule di Rovigno.
Riconciliazione impossibile? “Io, da rimasta, ho sempre recriminato contro chi se n’era andato. Non riuscivo ad accettare il fatto di essere rimasti così pochi. Se gli esuli non avessero lasciato queste terre forse avremmo potuto avere, seppur all’interno della Jugoslavia, più forza e una certa forma di autonomia. (…) Quando, dopo la caduta della Jugoslavia, si sono organizzate le prime riunioni, i primi incontri tra gli esuli e noi rimasti, è apparsa evidente la differenza. Ricompattarci, tornare ad essere un unico popolo come eravamo, era ed è illusorio. Sono passati tanti anni, troppi. Io mi considero da sempre irredentista, anche se so benissimo che non rivedrò mai più il tricolore sventolare di nuovo a Fiume. A noi rimasti, non resta altro che tentare di trasmettere e difendere il ricordo dell’identità italiana di Fiume. Ma siamo destinati a scomparire”, conclude Maria Schiavato.
Parole sconsolanti che denotano tristezza per un destino che la Storia ha voluto diverso da quello sperato, da quello che sarebbe stato giusto; amarezza per le tante, troppe incomprensioni, da parte di tutti; forse anche un po’ di stanchezza nel vedere che le tante battaglie portate avanti sono destinate a svanire sotto i colpi di quell’assimilazione “naturale” che colpisce un po’ tutte le minoranze, anche in assenza di un preciso disegno politico di emarginazione ed annientamento. Ormai tutto è compiuto: non ci resta che piangere? E seppure tra le lacrime continuare a ripetere che Koper è Capodistria, Rijeka è Fiume, Zadar è Zara…
Ilaria Rocchi