C’era una sVolta è il suggestivo titolo di un libro che la giornalista e scrittrice Viviana Facchinetti ha realizzato nel 2004, a conclusione di un suo viaggio in Canada, per seguire le vicende degli esuli colà emigrati. L’assonanza con “C’era una volta” sta a indicare un periodo che, nell’accezione comune, si considera finito. Nelle intenzioni di Viviana Facchinetti indica invece quel momento in cui gli esuli, dopo il Memorandum di Londra, persero ogni speranza di ritornare alla loro terra, e, spinti da condizioni politico-economiche favorevoli, decisero di tentare una nuova vita oltremare, fra speranze e rimpianti.
Nel mio immaginario questa condizione si traduce nella scena della presenza, alla Stazione Marittima di Trieste, delle motonavi Saturnia o Vulcania o Conte Biancamano, in partenza dal molo in un tripudio di gente, di volti fiduciosi (e disperati) al distacco dalla banchina.
Nel caso dei protagonisti della conferenza, la famiglia polese Castro, la decisione matura per l’improvvido appellativo di non italiani affibbiato loro in un campo profughi a Trieste, un rifiuto di accoglienza, immotivato e nello stesso tempo offensivo. Questo sentirsi stranieri in patria determina la loro decisione di trasferirsi in Canada.
Arrivati a Halifax, li attende l’avventura del treno, che li porta, scomodamente e con esasperante lentezza, a destinazione. Sul treno e sulle prime esperienze di questi sfortunati viaggiatori fioriscono numerose storie e aneddoti. Nella famiglia Castro sembra sussistere una certa ritrosia a ricordare quell’inizio difficile, La bravura della relatrice-intervistatrice consiste allora nel far loro superare questa reticenza, ricordando episodi simili.
Pur iniziando una nuova vita, hanno mantenuto i legami con la terra madre, l’Istria: è la figlia Astrid a sottolineare il legame con Pola e con Dignano, visitati con regolarità negli anni passati, fino all’avvento della pandemia. L’intervistatrice, per mantenere vivo il dialogo, ricorda il suo precedente viaggio in Canada nel 2004. Descrive l’episodio di una fotografia apparsa sull’Arena posteriormente a quella data: era la foto di uno sventurato padre che a Vergarolla portava fra le braccia, sconsolato, il cadavere di una bambina, forse sua figlia, forse no. Quell’uomo era il cognato dell’intervistato Bruno Castro, da lui riconosciuto molti anni più tardi nella fotografia. Questa circostanza lo induce a parlare, a descrivere l’accaduto, ed a commentare che i numerosi testimoni della tragedia non avevano potuto parlarne liberamente, vista l’oppressione del regime: si dà sfogo al ricordo, si apre un brano, una parentesi di vita polesana. Ma le parole faticano ad uscire, le impressioni ed i ricordi risultano sopiti, molto lontani.
E ancora l’intervistatrice insiste, ricordando le famiglie che avevano lasciato un segno, la famiglia “Barzula”, isolana, che, per ovviare all’esperienza traumatizzante di un caffè “brodaglia” al posto dell’agognata tazzina, aveva deciso di fondare una torrefazione, che aveva avuto negli anni un grande successo, affermandosi a Toronto come centro di ritrovo.
Passando all’argomento del lavoro assegnato all’arrivo agli esuli, l’intervistatrice ricorda la contea agricola di Chatham, che aveva attratto un congruo numero di istriani. Viene messa in evidenza la loro tenacia, il loro voler ben apparire, tanto da prepararsi durante la notte precedente l’inizio dell’attività agricola al lavoro che avrebbero dovuto svolgere il giorno seguente. Era chiaro che, così stando le cose, visto il loro impegno nella coltivazione della barbabietola, del tabacco, del pomodoro, la loro prestazione veniva contesa dai farmisti, che si recavano nei treni e per accaparrarseli iniziavano risse furibonde.
E che dire dei ritrovi degli italiani, degli istriani? Come erano organizzati a Toronto?
Il Circolo giuliano-dalmata era stato inaugurato in concomitanza di un’eclissi di sole, il Circolo era ancora attivo, anche se in sofferenza per la pandemia. L’accoglienza da parte di altri (italiani) era stata lacunosa o addirittura assente, i Castro, arrivati a Toronto avevano dovuto prendere un taxi per raggiungere il centro immigrazione; l’indicazione era stata data da un sacerdote ed il governo canadese aveva dovuto sostenere le spese del taxi. Gli amici di viaggio, presenti sulla nave, si erano dispersi appena arrivati a destinazione, ognuno intento a risolvere i propri problemi, e non si erano più visti per 6-7 mesi.
L’altro problema da affrontare, all’atto dell’inserimento, era quello della lingua. A questo punto è intervenuto l’altro invitato alla conferenza, Max Lucich
Anche lui aveva sofferto tremendamente l’inserimento, viveva in campagna, isolato, fuori Philadelphia, a scuola insegnanti e scolari non dimostravano comprensione per la sua situazione: è solo grazie ad una maestra greca che ha potuto imparare l’inglese senza soffrire del complesso del “diverso”.
Siamo alla fine della conferenza, il clima si è sciolto, gli ospiti interloquiscono spontaneamente.
Però è l’ora che si deve concludere. La chiusura è dei giovani, di Astrid, la figlia, e di Max da Brasilia. “Mi sono sentita più istriana che italiana, come istriana mi considero portatrice di una tipicità che deriva dalla nostra storia” – ha concluso Astrid. “Orgoglio istriano”.
Max ha confermato: “Vero, siamo i figli, nipoti di questa super-razza; ibridizzati e resi resilienti da diverse culture”.
I giovani discendenti hanno fondato un gruppo WhatsApp e si terranno in contatto. Gli altri membri della diaspora devono accontentarsi, assistendo numerosi (e lo erano effettivamente) a questi incontri della memoria. Viviana, concludendo: “E’ stato un incontro fra amici, da reiterare in futuro”.
Claudio Fragiacomo