di Azra Nuhefendić
"I serbi sono gente buona. Vogliamo vederli a Dubrovnik". L'affermazione, coraggiosa per un croato, è di Goran Strok, proprietario di una catena di alberghi di lusso in Croazia.
Per i croati, i serbi sono l'archetipo del nemico. Una macchina targata Belgrado è stata recentemente demolita a Spalato. Dopo, si è saputo che il proprietario era un croato.
Le persone che in Croazia hanno sventolato la bandiera della ex Jugoslavia, il primo maggio scorso, sono state stigmatizzate. Nella memoria collettiva dei croati, la Jugoslavia è uguale alla Serbia. Quelli che esprimono nostalgia per la Jugoslavia sono considerati malati, provocatori o anti patrioti.
"La recessione ha spinto i croati a pregare i serbi di trascorrere le proprie vacanze in Croazia", scrive il settimanale americano "Newsweek". I guadagni del turismo rappresentano una bella fetta del prodotto interno lordo della Croazia. L'anno scorso, prima della crisi, la costa croata era gremita di vacanzieri. Il successo non si ripeterà, la prossima stagione, per la crisi economica. Per salvarsi, si fa appello ai serbi e ai fratelli di una volta.
Noi, gente dell'entroterra, non siamo sorpresi per questi inviti cordiali da parte di dalmati e istriani. Ci siamo abituati a questo amore che viene e va, periodicamente.
Negli anni sessanta ebbe inizio il turismo di massa in ex Jugoslavia. Abbiamo cominciato a fare le vacanze estive, e a trascorrerle al mare in Dalmazia e in Istria.
Nel 1962 la Dalmazia fu colpita da un potente terremoto. Dopo il sisma, i paesani hanno lasciato i villaggi e le case distrutte, dove vivevano di pesca e agricoltura, e si sono avvicinati al mare. Con l’aiuto dello stato hanno cominciato ad erigere case nuove. Lungo la costa il governo jugoslavo ha costruito una nuova strada, la Jadranska magistrala. Cosi cominciò a svilupparsi il turismo.
All’inizio la gente locale, tranne gli abitanti delle città antiche, erano contadini che non sapevano come comportarsi con i furesti, ci chiamavano così, noi che venivamo a trascorrere le vacanze al mare. Noi stessi eravamo inesperti del nostro nuovo ruolo di turisti.
Di solito si diventava amici della famiglia presso cui si soggiornava durante le vacanze. Parlavamo della nostra famiglia al mare, si rimaneva fedeli per anni e tornavamo ogni estate. Là ci aspettavano come si aspettano i cugini.
Da Sarajevo partivamo per le vacanze verso le quattro di mattina. Passavamo per le vie vuote della città addormentata incontrando una macchina, a volte nessuna. Già alle cinque ci lasciavamo alle spalle la prima sfida, il monte Ivan, il confine tra la Bosnia e l'Erzegovina. E’ a quel punto che papà, contento, ordinava: “Cantiamo”. Poi si faceva sosta a Metković, sulla Neretva, dove già si annusava l’aria del mare. Al bar ristorante "Zdravljak" si beveva un caffè e si mangiava il krafen più grande e più buono del mondo. Una breve pausa a Poćitelj, città fortezza medievale, e alle dieci eravamo sdraiati sulla spiaggia di Podgora, cittadina vicino a Makarska.
Andavamo dalla nostra Matija, una vedova con un unico figlio. Si costruiva la casa nuova da sola, ogni anno aggiungeva qualcosa, le finestre, finiva la pittura, posava le piastrelle.
A papà non piaceva stare al sole, diceva che veniva al mare solo “per tenere le figlie sane”. E mentre noi prendevamo il sole, lui aiutava Matija facendo piccoli lavori in casa o nel giardino.
Finite le vacanze, quando giungeva il momento di pagare, ogni volta si trattava a lungo. Matija rifiutava di accettare i soldi, diceva che avrebbe preso solo un terzo o metà della somma. Papà ripeteva il proverbio che “l’amicizia è una cosa, il lavoro un'altra”, o minacciava che non saremmo più tornati se Matija non avesse preso i soldi. Alla fine Matija accettava, ma in compenso ci riempiva il baule con la verdura del suo orto, ci regalava le collane con i fichi secchi e ci salutava a lungo finché la macchina non spariva dietro la curva della magistrala.
Il turismo ha portato il benessere ai dalmati, che hanno cominciato a cambiare. “Vivevamo nel turismo, non nel comunismo o nel capitalismo”, diceva il noto scrittore croato Miljenko Smoje.
Preferivano i turisti tedeschi a noi, jugoslavi, per essere pagati in marchi piuttosto che in dinari. Ironizzavamo su questo, dicendo che la cosa migliore sarebbe stato mandare i soldi senza farsi vivi. In certi posti sulla costa sono diventati proprio scortesi con noi. Ci accettavano malvolentieri e come ultima possibilità, se proprio non c’erano gli stranieri. Noi, turisti domači, non pretendevamo un trattamento speciale, niente di più ma neanche niente di meno degli altri.
La guerra, negli anni novanta, ha cambiato il comportamento di dalmati e istriani nei nostri confronti. Le case private, i nuovi lussuosi alberghi lungo la costa, era tutto vuoto, chiuso, tranne pochi posti riempiti di profughi o feriti. Dalmati e istriani sono rimasti a secco, come si diceva. Niente turisti, niente soldi.
Un bizzarro gruppo di “turisti" visitava alberghi e case lungo la costa, durante la guerra. Nella valle di Koravle l'armata popolare jugoslava, i paramilitari serbi e montenegrini hanno devastato tutto quello che gli è capitato sotto mano o nel raggio di tiro dei cannoni. Assediavano e bombardavano pure la città antica, Dubrovnik. A Belgrado dicevano che "il fumo viene dalle gomme che la gente locale sta bruciando sula strada principale, lo Stradun". Messi all'angolo, i serbi dovettero ammettere che la città era stata bombardata. L'ex presidente della autoproclamata regione autonoma serba in Erzegovina, Božidar Vućurević, dichiarò che Dubrovnik “l'avrebbe fatta diventare più bella e più antica".
Più a nord i paramilitari croati, e talvolta gli stessi vicini di casa, rubavano, demolivano, si impadronivano delle case i cui proprietari provenivano da altre parti della Jugoslavia.
E la gente comune, noi che venivamo chiamati "paradajz turisti", turisti del pomodoro, perché al mare mangiavamo il pane con il pomodoro e un po' di formaggio?
Nelle città assediate la gente sognava il mare, e sembrava un sogno irraggiungibile, il simbolo della purezza, dell'attraversare il confine. Sotto l'assedio ci giunse voce che i dalmati e gli istriani ci rimpiangevano, che gli mancavamo, che ricordavano i bei tempi in cui le loro camere erano occupate dai furesti, e le tasche erano piene di soldi.
Dopo la guerra, i sopravvissuti prima si sono sfamati, ma il secondo passo fu quello di recarsi al mare. E sulla costa ci hanno accolto come la propria famiglia. Ci trattavano bene per i primi due, tre anni. Noi, la gente della ex Jugoslavia, eravamo gli unici turisti. Dopo di noi sono arrivati i cechi che, come si sa, li potevano fermare soltanto i carri armati.
Poi è arrivato il boom turistico. Tutti quelli che contano hanno cominciato a dire che sarebbero andati in Croazia. Ancora prima che cominciasse la stagione dei ricchi e del turismo di lusso, dalla Croazia ci hanno mandato il messaggio che non eravamo più benvenuti. Speravano di ospitare i ricconi, e non gli andava più il turismo di massa e dei poveri, come ci descrisse in un documento il partito dei verdi di Croazia. Di nuovo ci trattavano come i cugini poveri, come quelli che si fanno entrare in casa dalla porta sul retro e si fanno accomodare in cucina, quando la festa è finita, offrendogli quello che resta perché è un peccato buttarlo via…
Tutti i turisti potevano varcare i confini della Croazia con il solo passaporto mentre noi, turisti domači, dovevamo mostrare i contanti per garantire la nostra capacità di spesa. Non si fidavano delle nostre carte di credito. Ogni poliziotto doganale era autorizzato a chiederci di fargli vedere i contanti, minimo cento euro per un giorno al mare, se no “indietro, prego”.
Che delusione!
Così la gente si è cominciata a stufare di questo amore a senso unico. Spontaneamente hanno cominciato a scegliere altre destinazioni, i mari lontani, posti più accoglienti, gente più cortese. Ormai in Grecia, Turchia, Italia, Tunisia, Cuba, Marocco, o Egitto, addirittura in Vietnam o Thailandia, abbiamo quelli che ci aspettano, ogni anno, con il cuore aperto.
Per quanto riguarda i dalmati, conviene riflettere su quello che suggerisce il giornale Slobodna Dalmazia: ”La Madonna di Medjugorje salverà la stagione…”