Videoconferenza dell’ANVGD Milano con Nelida Milani

Il Comitato Provinciale di Milano dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha organizzato una videoconferenza giovedì 6 giugno alle ore 18:00, intitolata “Nelida Milani: il contropotere della cultura italiana nell’Istria del Secondo ‘900”. Tra i relatori, la Prof.ssa Donatella Schürzel, Vicepresidente Nazionale Vicario dell’Anvgd e Phd Europeo in Storia dell’Europa, Giulia Basel, Direttrice artistica del Florian Metateatro (che ha iniziato un percorso di approfondimento sulla storia della frontiera adriatica) e proprio Nelida Milani.

Nata a Pola nel 1939, la Milani è considerata la più illustre scrittrice della comunità italiana rimasta in Istria dopo la Seconda Guerra Mondiale. Come redattrice responsabile della rivista letteraria della minoranza italiana «La Battana», giornalista e autrice, ha dedicato la sua produzione letteraria al riconoscimento dell’identità italiana autoctona. Insieme a numerosi altri intellettuali, ha condotto attività in forte opposizione al potere politico, prima jugoslavo e poi croato, riuscendo a creare una significativa corrente di controtendenza, nonostante le costanti ostilità, più o meno manifeste, dei regimi e governi succedutisi.

Prima di condividere la videoconferenza presente sul canale YouTube ANVGD Comitato di Milano, riportiamo l’intervento che è stato letto dalla scrittrice istriana, condiviso dall’ANVGD Milano e ripreso dalle testate online Como Live, Resegone Online, Valtellina News e Varese in Luce.

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Saluto cordialmente tutti i presenti, in modo particolare Annamaria Crasti, alla quale vanno la mia amicizia e la mia stima per l’indefesso lavoro che porta avanti e che voi conoscete meglio di me. Vorrei tanto essere là con voi, ma età e salute non permettono e sono sicura di avere la vostra comprensione. Si parlerà però della mia scrittura. Ed è quello che conta.

C’è una scrittura di mare, una storia di mare, che conosciamo tutti: un mare mosso, tempestoso, e c’è una barca che tenta di solcarlo, i marinai remano a fatica, sanno che quel mare, fra Scilla e Cariddi, significa morte, perché nell’Odissea il mare è morte. Dopo lo stretto di Messina, i naviganti devono fare i conti con le Sirene, il cui canto è così bello che rischia di incantarli, mandarli fuori rotta per farli naufragare. Capitan Ulisse ordina allora ai suoi uomini di tapparsi le orecchie con la cera e di legarlo all’albero maestro. Lui, quel canto, lo vuol sentire. E infatti, con voce dolcissima le sirene narrano cosa è successo nel mondo dopo la lunga guerra di dieci anni per conquistare Troia. Dieci anni in guerra e altri dieci anni in viaggio per mare, sono venti anni che i marinai tentano di tornare a casa. Le sirene raccontano ciò che è successo in quell’arco di tempo, nel dopo Troia. Per questo Ulisse ha intimato ai suoi di tapparsi le orecchie e di farsi legare all’albero della nave, perché vuole ascoltare la storia da cui lui sta venendo.

Cosa è successo durante la sua peregrinazione per mare che dura da dieci anni? Lui farebbe qualsiasi cosa pur di sapere se le sue avventure e le dure prove superate si ricordano ancora, se si narrano sulla terraferma. Nel mondo greco entrare nel racconto epico significa avere finalmente un’identità. Quella è la grande sfida: come facciamo a ricordare, a non far cadere il nostro nome nel nulla. Nascere vivere morire senza essere ricordati in una narrazione. È per questo che Ulisse vuole sapere se il suo nome è entrato nella narrazione epica che si tramanda. E per questo vale rischiare la vita e ascoltare il canto delle sirene.

Forse ricordate un film di anni fa profondamente commovente. “The Father” (con il grande Anthony Hopkins) racconta la perdita di memoria di una persona anziana, l’angoscia che una realtà sempre più sfuggente procura, la ferocia della malattia, la sua capacità di soffiare via i ricordi di una vita facendoli volare lontano, come un albero che perde le foglie e resta spoglio. Senza la narrazione scritta, senza la scrittura, le nostre vite assomiglierebbero a quelle di Anthony Hopkins in “The Father”. È nella memoria che si trova il segreto di quello che noi siamo. E la scrittura salva la memoria, la nostra memoria di un’esperienza di minoranza e di vinti. Per le maggioranze e i vincenti c’è la pubblicità.

La memoria non è Storia, lo sappiamo bene. La Storia è tutt’altra cosa, è fatta di grandi avvenimenti: guerre, catastrofi, tragedie. Essa è collettiva ed è condivisa, per larga parte è Storia dei vincitori. La memoria, invece, è sempre soggettiva, individuale, non è mai condivisa, è la narrazione personale di vita vissuta. La memoria la puoi chiudere in un cassetto, nell’archivio del cervello, ma, attraverso la scrittura puoi riaccendere la scintilla. È quello che farà stasera Donatella Schürzel, alimenterà di nuovo il fuoco, perché la brace non si è mai spenta. Per me sarà un grande onore e un grande privilegio seguirla da remoto.

La scrittura è sempre testimonianza di una battaglia vinta. Tutti i racconti finiscono per rispondere a quell’esigenza di Ulisse, un’esigenza primaria e insopprimibile: evitare il pericolo più grande, di rimanere ignoti a noi stessi. Come evitarlo? Lasciando memoria di sé per dare significato e valore alla vita. Alla fin fine la memoria serve per sconfiggere quel mucchietto di polvere che tutti saremo, per sconfiggere la morte e vivere oltre il tempo che ci è dato.

I miei racconti e raccontini sono memoria di perdita e di mutazione. La mutazione riguarda tutti: i poco mutati, i molto mutati, i mutati che non si rendono conto di essere mutati, perché si è trattato di mutamenti sotterranei rispetto ai quali non ci siamo accorti di cambiare o abbiamo dovuto subire. Da lì nascono piccole storie, pezzettini di memoria strappati all’ombra per portare alla luce i dimenticati, le famiglie dimezzate, la gente che nessuno calcola e che è stata umiliata e derisa dalla sorte. Quindi i miei racconti hanno in comune immancabilmente la perdita. La perdita della lingua. Il collasso della parola è terribile. Se cominci a perdere le parole, ogni sentimento resta un grumo emotivo, una roba qua dentro, in petto e in gola, che non può uscir fuori, perché non conosci più la forma espressiva per farlo.

All’impotenza rispetto a mutazione e a perdita, ho cercato di reagire. Non posso parlare? La mia lingua è moneta fuoricorso, l’avete costretta extra moenia? E allora io scrivo. Allora io ti frego. Utilizzo la scrittura se l’azione del parlare è impossibile. Mi metto a scrivere nella mia lingua. Se non posso cambiare la realtà, posso ancora raccontarla. Il mio riscatto è stato la mia scrittura. Grazie!

Nelida Milani

 

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