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Violante: va condivisa l’identità, non la memoria (Il Piccolo 13 feb)

TRIESTE «Mi vergogno d’esser stato comunista». Luciano Violante, ex presidente della Camera, comunista di lungo corso, è diventato rosso di rabbia, più che di vergogna, quanto ha letto ieri mattina il titolo ieri «Il Riformista», quotidiano diretto da Antonio Polito, ha attribuito a un suo articolo sulla «Giornata del ricordo». Una forzatura? Una strumentalizzazione politica? Malafede? «Ho scritto una lettera al direttore in cui spiego il perché. Non c’è altro da aggiungere» taglia corto al telefono Violante che, nella citata missiva, annuncia l’interruzione della collaborazione con il quotidiano.

«Gentile direttore – scrive l'esponente del Pd – sono indignato per il titolo che il tuo giornale ha dato, in prima pagina, al mio articolo di oggi. Quel titolo è falso perché non corrisponde al contenuto dell'articolo, è offensivo perché non corrisponde ai miei sentimenti e alla mia vita, è volgare perché riduce ad uno stupido protagonismo individuale un ragionamento sull'identità italiana».

Detto, fatto. Il divorzio consumato. Il direttore Polito, che con Violante condivide un passato parlamentare e una militanza nel Partito democratico, non si straccia le vesti. Anzi. «Violante ci informa che non prova vergogna. Ne prendiamo atto con mestizia» scrive Polito in una nota dettata alle agenzie. Ma poi entra anche nel merito della faccenda: «Un titolo è un titolo, e se l'autore dell'articolo non vi si riconosce, c'è poco da fare. Ma in quell'articolo Violante scriveva, rivivendo al teatro il ricordo delle foibe: ”Mi sembrava che le implicite accuse delle parole della piece («Una grande lapide bianca», il monologo citato da Violante e letto il 10 febbraio a Montecitorio, ndr) sentito riguardassero anche me. Perché l'aver appartenuto al partito comunista e il sentirmi tutt'ora dentro quella rigorosa educazione politica e quel complesso di valori civili e repubblicani mi faceva sentire tra quegli assassini”. Ammettere di sentirsi tra ”quegli assassini” ci era parsa un'umile e nobile ammissione di vergogna».

Umile e nobile un corno. «Una cosa è l’assunzione di responsabilità umana e morale, altro è la vergogna che è una cosa che si inventato il direttore o il titolista» è l’unica aggiunta alla lettera che si riesce a strappare al telefono a Violante. La strada dell’«identità» condivisa (che l’ex presidente della Camera tiene rigorosamente separata dalla «memoria») non è lastricata di vergogne. Al massimo di qualche imbarazzo. «Mentre la tragedia era raccontata mi sono sentito in imbarazzo – scrive nell’articolo l’ex presidente della Camera -. Mi sono reso conto per la prima volta che la mia storia politica era stata dalla parte degli aggressori, di chi legava il fil di ferro ai polsi delle vittime, prima di precipitarle, non dalla parte di chi aveva i polsi legati. Dalla parte di chi aveva a violentato e non dalla parte di chi era stato violentato». Da qui la scorciatoia di un titolo poco «riformista» e piuttosto ad affetto sulla vergogna «d’esser stato comunista».

Il discorso di Violante, invece, partiva da lontano e andava ben oltre un semplice pentimento. «A Trieste, e altrove, in più occasioni, ho ribadito l’intollerabilità dei lunghi decenni di silenzio» scrive l’esponente del Pd. E, in effetti, fu proprio a Trieste che quasi undici anni fa (14 marzo 1998) l’allora presidente della Camera dei deputati aprì la stagione della pacificazione in un incontro pubblico al Teatro Verdi con Gianfranco Fini, allora segretario nazionale di Alleanza nazionale e oggi suo sostituto a Montecitorio.

Un percorso che ha prodotto frasi come queste: «Finchè la sinistra non celebrerà le foibe e la destra non celebrerà Fossoli (il campo di internammento dell’Emilia Romagna dovè transitò anche Primo Levi, ndr) resteremo divisi nelle nostre storie e nelle nostre memorie».

Passaggio obbligato per arrivare al concetto che sta a cuore a Violante: «La memoria per ciascuno di noi è il proprio personale rapporto con la storia generale e con le vicende della propria vita. È perciò difficile che sia condivisa. L’identità deve essere condivisa non la memoria. Essere italiani vuol dire avere avuto tanto Fossoli quanto Basovizza». Chiaro? Qual è sarebbe stato allora il titolo corretto? «L’identità deve essere condivisa» suggeriamo. «Appunto. Il tema dell’articolo è quello dell’identita» chiude Violante. Ma poi, come ci insegna Polito, un titolo è un titolo. E il giornalismo, a differenza di altre professioni, non conosce vergogna.

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