ANVGD_cover-post-no-img

Zandel: viviamo in un capitalismo cinico e indifferente (Voce del Popolo 18mag13)

Parlare della produzione di Diego Zandel significa parlare della vita dello scrittore di origini fiumane, nato nel 1948 da una famiglia di esuli nel campo profughi di Servigliano, nelle
Marche, vissuto nel Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Zandel, oltre ad essere figlio della nostra città, è giornalista, autore di romanzi, thriller, in cui il nome di Fiume è sempre presente.

Egli ha ripercorso gli anni della sua militanza anarchica, l’idealismo di sinistra, la delusione per il fallimento dell’esperienza jugoslava – vista come un piccolo paradiso sotto l’ottica di certe conquiste sociali, basti pensare all’assicurazione e all’assistenza sanitaria per tutti – ma soprattutto per il modo sanguinoso con cui si è disintegrata l’ex Federativa…

Oltre alle vicende personali nelle opere di Zandel confluiscono storia e fantasia. Il suo primo romanzo “Massacro per un presidente”, del 1981, è stato pubblicato di recente in un’edizione riveduta dall’autore per la fiumana EDIT- Il ramo d’oro di Trieste (collana Passaggi). L’opera presenta un intreccio di giallo, di thriller, alcuni elementi del filone esistenzialista per affermarsi poi come un testo in cui si fa cenno anche sull’esodo, il tutto impregnato da una forte carica emotiva, parecchia tensione e suspense. Il libro coinvolge il lettore fin dalle prime battute e invoglia a leggerlo tutto d’un fiato.

Il contesto storico dell’opera è quello degli anni Settanta/Ottanta del secolo scorso. In quest’occasione abbiamo chiesto l’opinione a Diego Zandel su alcuni temi molto attuali.

”Massacro per un presidente” è un romanzo sul significato della vita, l’inafferrabilità e la complessità della politica e della storia, mi soffermerei su un tema molto attuale e cioè quello
della crisi. Potrebbe paragonare la crisi degli anni Ottanta di cui si fa riferimento nell’opera e quella contemporanea?

No, assolutamente. La crisi oggi è provocata dalle politiche liberiste di un capitalismo
finanziario la cui unica preoccupazione è accumulare ricchezze al di fuori di qualsiasi produzione industriale. Un capitalismo cinicamente indifferente alla sorte dell’umanità e del lavoro. Negli anni
Ottanta invece la crisi era provocata dalla reazione del capitalismo alle conquiste dei lavoratori, in termini soprattutto di diritti, nel mondo della produzione. Diritti che il capitalismo vedeva come fumo agli occhi perché comprimeva i profitti che i capitalisti erano abituati a intascare fino allora sfruttando i lavoratori: hanno usato tutti i mezzi per riportare indietro il potere dei lavoratori, usando gli strumenti della repressione poliziesca, della violenza, del terrorismo, dei media, gettando nella paura la piccola e media borghesia cosiddetta ben pensante da convincerla a votare gente come Reagan e la Thatcher, che avrebbero impresso al mondo quella svolta liberista che è la causa prima, l’inizio della crisi di cui oggi paghiamo le conseguenze.

Lei un’idea sul terrorismo di quegli anni se l’è fatta…

Credo che il terrorismo di quegli anni sia il prodotto di due fattori: da una parte della spinta delle ali estreme del movimento operaio che, sull’onda delle conquiste sindacali, voleva – come si
usava dire – “tutto e subito” invece di coltivare, con intelligenza e fermezza, un solido riformismo capace di trasformare la società senza provocare quei contraccolpi reazionari che l’estremismo ha provocato nella borghesia. La quale, dall’altra parte, ha preso la palla al balzo per alimentare a sua volta un terrorismo di segno opposto, con l’aiuto di corpi separati dello Stato ideologicamente omogenei al disegno reazionario. È quella cosa conosciuta come strategia della tensione, di cui parla benissimo Sorrentino nel film “Il Divo” sulla figura emblematica di Andreotti, appena scomparso a 94 anni, con tanti segreti nella tomba. Strategia alla quale ha dato un notevole contributo la CIA che nel corso degli anni Settanta e precedenti s’era già distinta con operazioni antidemocratiche che all’epoca avevano portato paesi come la Grecia, il Cile e altri stati latinoamericani a dittature di carattere fascista.

Lei è cresciuto nel Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma. Quali sono le esperienze che ha vissuto qui; che cosa ricorda di questa comunità di esuli?

Sono tante le esperienze, vissute nei lunghi anni in cui il Villaggio Giuliano-Dalmata di Roma ha mantenuto la sua struttura originaria, quella che aveva nei padiglioni, lunghi corridoi nati alla fine degli anni Trenta come dormitori degli operai che costruivano la futura EUR, il baricentro della vita comunitaria. Il tutto nell’isolamento dell’agro pontino, i cui unici insediamenti più vicini erano rappresentati dalla caserme della Cecchignola a sud e dalle case della borgata Montagnola, verso una città, Roma, ancora lontana ed estranea: noi ad essa ed essa a noi, in tutto. Si sapeva poco o niente della nostra storia, quando non erano i pregiudizi ideologici a fare cattedra. Eravamo una comunità chiusa che parlava il dialetto istroveneto, festeggiava i santi delle città da cui provenivamo, accomunata dallo stesso dolore e rimpianto per ciò che eravamo stati costretti a lasciare, compresi – come la mia famiglia – i parenti, genitori, fratelli, zii, cugini. Naturalmente, all’interno di questo contesto generale, c’era poi tutta la vita tipica delle comunità chiuse, le chiacchiere, i pettegolezzi, la vita spicciola di ogni villaggio. Questa vita in comune e così particolare è servita però a dare a ciascuno di noi una forte identità giuliana, anche a chi come me è nato in un campo profughi delle Marche lontano da Fiume e dall’Istria o dalla Dalmazia.

Nonostante il fatto che sia nato nelle Marche, ritorna spesso a Fiume, città natale dei suoi genitori. Va ricordato che il suo romanzo già citato è stato dedicatoappunto alla memoria dei suoi genitori.

Che cosa la lega alla città? Può tirar fuori qualche ricordo dell’infanzia e dei giorni trascorsi a Fiume?
A Fiume ritorno molto spesso. Quest’anno già due volte, a febbraio e in aprile. Ho qui ancora una zia, sorella di mia madre, e le cugine e i loro figli, a cui sono molto legato. Le ragioni sono date dal fatto che io vengo a Fiume da prima che le mie cugine nascessero, ponendomi come cugino maggiore nei loro confronti, con tutto il carico di affetti che ciò comporta. A Fiume arrivai la prima volta nella primavera del 1954 e d’allora ho trascorso qui, fino ai vent’anni, le mie vacanze estive, facendomi amici e, diciamo, fidanzate. C’è l’affetto e i ricordi alla base di tutto. Per questo sono molto legato anche ai parenti che ho ad Albona, legati alla mia famiglia paterna, presso i quali trascorrevo parte delle mie vacanze. Il rapporto con loro è rafforzato anche dal fatto che sentiamo tutti, anche con le ultime generazioni, l’orgoglio di appartenere agli Zandel, quasi fosse un marchio di fabbrica unico. Questo è molto avvertito anche dai miei figli, devo dire, che pure hanno avuto maggiori frequentazioni con la famiglia di mia moglie, di madre greca.

Nei suoi libri troviamo spesso riferimenti alla Grecia. Sua moglie era greca. Come vi siete conosciuti? Che ne pensa dei matrimoni misti e come questo ha influito sulla sua produzione letteraria?

Mia moglie era, appunto, figlia di madre greca e di un soldato italiano arrivato in Grecia a causa della guerra. La cultura e le tradizioni greche, ma anche la religione – mia suocera era greco ortodossa – hanno però caratterizzato pressoché totalmente la sua famiglia riversandosi poi sulla mia, quando mi sono sposato. I miei figli – a parte l’orgoglio di essere degli Zandel – avvertono molto questa identità, molto più, devo dire, di quella istrofiumana, anche perché hanno trascorso e continuano a farlo tutte le estati sull’isola di Kos, da cui mia suocera proveniva. Ho conosciuto mia moglie perché i suoi genitori abitavano nel primo palazzo in assoluto sorto alle porte del Villaggio Giuliano-Dalmata. Non c’era altro in giro e, se voleva avere degli amici, mia moglie poteva trovarli solo attraversando la via Laurentina. L’ingresso del Villaggio stava al numero civico 639, la palazzina in cui arrivò mia moglie al numero 640. Dei matrimoni misti, anche per questo, penso tutto il bene possibile. Aiutano la comprensione tra i popoli. I miei figli, ancora più di me, hanno la percezione di quanto stolte siano le distinzioni etniche, avendo cugini greci e croati, con i quali sono in continuo contatto, se non altro grazie a Facebook. E anch’io personalmente, ormai, mi sento, oltre che italiano e croato, un po’ greco, visto che sono 44 anni che mi reco regolarmente laggiù, dove sono di casa. Quella gente, quella terra, quell’isola mi è entrata effettivamente nel sangue, mescolandosi a quello istrofiumano. Grazie a questo rapporto sono nati, accanto a quelli
istrofiumani, per ora tre romanzi ambientati a Kos. E ne prevedo altri. Soprattutto ora che una grave malattia ha portato via per sempre mia moglie e l’amore per la Grecia che lei mi ha trasmesso in questi lunghi anni di matrimonio è uno dei tanti motivi che continuano e continueranno a legarmi
a lei, al suo ricordo, che poi sono anche i ricordi di noi due, del nostro amore.

Kristina Blecich
“la Voce in Più / Cultura” / suppl. de “la Voce del Popolo” 18 maggio 2013

0 Condivisioni

Scopri i nostri Podcast

Scopri le storie dei grandi campioni Giuliano Dalmati e le relazioni politico-culturali tra l’Italia e gli Stati rivieraschi dell’Adriatico attraverso i nostri podcast.