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Zecchi: Esuli istriani, una storia rimossa (corriere.it 09 feb)

«Gli italiani non hanno capito quale sia stato il dramma dell’esodo giuliano-dalmata. Dopo averlo rimosso per anni, ora lo considerano un fatto minore». Stefano Zecchi, giornalista, scrittore e docente di Estetica a Milano, nato a Venezia 66 anni fa, parla con sofferto disincanto, alla vigilia del Giorno del Ricordo, della tragedia delle foibe e dell’esodo dalle loro terre di istriani, fiumani e dalmati. Lui, che nel suo ultimo romanzo Quando ci batteva forte il cuore (Mondadori, pp. 216), ha raccontato proprio la fuga disperata di un padre e un figlio dalla Pola insanguinata del 1947, sente infatti che il Paese non ha ancora metabolizzato quell’immane trauma.

Come se lo spiega, professore?

«Molto ha fatto la realpolitik. All’inizio, quando c’erano ancora i nazisti in Europa, le potenze occidentali non volevano contrastare Tito e Churchill. Poi il problema è diventato italiano, perché si doveva in qualche modo pagare il prezzo della sconfitta. In quel clima la Democrazia cristiana e il Partito comunista si sono trovati a condividere la stessa linea: Togliatti chiedeva l’annessione di Trieste e i democristiani non facevano grande opposizione a questa scelta. Così nel ’48, dopo che Stalin ha sconfessato Tito, quest’ultimo è diventato un interlocutore delle potenze occidentali. Ed è stata la fine».

Solo un’incrostazione politica, dunque?

«Purtroppo no. Dietro alla diffidenza italiana per la tragedia degli esuli c’è anche una questione culturale. Mi spiego: la Resistenza può contare su dei libri di storia molto belli, il dramma dei giuliano- dalmati no. La Resistenza è diventata un luogo mitico-simbolico della nostra storia grazie alla grande narrativa dei vari Bassani, Cassola, Vittorini, Pavese. Perché è la grande narrativa che entra nel cuore della gente. La vicenda degli esuli, invece, è prima di questa drammaturgia».

E’ per questo che lei ha voluto ambientare il suo ultimo romanzo proprio nella Pola del dopoguerra?

«Sia chiaro, non voglio paragonarmi agli autori che ho appena citato; ma l’intenzione era appunto quella di trasmettere i veri sentimenti della tragedia».

«Quando ci batteva forte il cuore» si apre nel ’43 e si conclude con l’annessione jugoslava del febbraio ’47. E racconta la vicenda di papà Flavio e del figlio Sergio, in fuga da Pola. Quale filo collega la «grande» storia con la storia «privata»?

«Una parola: rimozione. Ho iniziato il libro con l’obiettivo di testimoniare il concetto di rimozione del ruolo paterno nella società moderna. Perché ormai i padri sono scomparsi, non contano più. Così, per una suggestione diretta, mi è venuta in mente la macro-rimozione della tragedia degli esuli. Una rimozione dai libri di storia e dalla nostra identità. Per questo ho messo insieme le due cose. E l’effetto mi pare che sia riuscito».

Come ha fatto a dipingere in modo così vivido la tragedia degli esuli?

«Ho pescato nella mia memoria. Mia nonna materna era un’ebrea triestina. E molte cose me le aveva raccontate lei. Ma non solo. Io stesso sono stato testimone della tragedia. Avevo 6-7 anni quanto in riva degli Schiavoni, a Venezia, arrivano le motonavi che scaricavano tutta quella povera gente. Ricordo il modo in cui venivano accolti gli esuli, a sputi e fischi, perché erano considerati fascisti. E ricordo i bambini a scuola con il cartello "profugo" stretto al collo. Noi poi ospitammo in casa anche una signora e il suo bambino. Per questo per me è impossibile dimenticare».

Giovanni Viafora

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